San Paolo - Evo Morales rinuncia alla presidenza della Bolivia da cui sarebbe già fuggito. Il tutto dopo una domenica destinata a rimanere nei libri di storia e, con lui, lascia anche il suo vice, il marxista Álvaro García Linera, da anni nei radar della Dea, l'agenzia antidroga statunitense, per narcotraffico che ieri notte ha denunciato un «golpe» contro di loro. In realtà il colpo di Stato lo avevano tentato in precedenza proprio Morales e compagni a più riprese. Prima ignorando il referendum del 22 febbraio 2016, con cui i boliviani avevano detto no alla quarta candidatura consecutiva di Evo. Un messaggio chiaro ma ribaltato dalla Corte Suprema che, controllata dal Mas (il Movimento al Socialismo) di Morales era riuscita addirittura a far passare per «diritto umano» la sua «candidatura infinita». Poi frodando in modo macroscopico il voto dello scorso 20 di ottobre, come evidenziato dal rapporto dell'Organizzazione degli Stati Americani (Oea) arrivato alle 5 del mattino di ieri dopo 19 giorni di proteste, quattro morti e centinaia di feriti, tutti oppositori.
I documenti dell'auditing Oea sono stati un macigno contro la narrativa del golpe propagata da Morales e García Linera- teoria del complotto ripresa dalla sinistra internazionale e da parte dei media italiani- perché dimostrano invece che il vero golpe l'ha fatto Evo, con una frode elettorale senza precedenti. «È stato verificato-si legge infatti nel rapporto Oea-che sovente tutti i verbali dello stesso centro di voto erano compilati dalla stessa persona, nello specifico il rappresentante del Mas delegato al seggio». L'auditing ha dimostrato anche la sistematica invasione del sistema elettorale. Ma soprattutto ha svelato la frode informatica dietro al golpe di Morales: i verbali provenivano infatti da server che aggiravano i controlli della società di revisione e ciò è stato fatto dopo l'interruzione della trasmissione dei dati di 8 ore, un blackout dopo il quale Evo era risultato magicamente «trionfatore» al primo turno.
Di fronte all'evidenza della frode, ieri alle 7 del mattino Evo prima ha tentato, per calmare la piazza e guadagnare tempo, un ultimo colpo disperato: indire «nuove elezioni» con non meglio specificati «nuovi attori» oltre a promettere di rinnovare il tribunale elettorale da lui controllato al 100% come la Corte Suprema. Peccato che i comitati civici dell'opposizione per fermare la mobilitazione che da settimane blocca la Bolivia volevano due cose in più: la certezza che lui non si ricandidasse e le sue dimissioni.
Di fronte al «no» di Morales su entrambi i punti, decisivi allora sono stati i pronunciamenti dei vertici della polizia e dell'esercito di non volere «sparare sui manifestanti» e che consigliavano a Evo la rinuncia.
E così mentre 6 suoi ministri e 3 governatori del Mas si dimettevano, Morales lasciava in aereo una La Paz assediata dalle proteste per volare nel Chapare, paradiso dei suoi fedelissimi cocaleros (produttori di foglie di coca).
Obiettivo? Consultarsi con loro sulle forze in campo a disposizione. Fatta la conta e avendo capito che senza polizia ed esercito non gli sarebbe bastato sguinzagliare i cocaleros a lui rimasti fedeli, Morales rinunciava in serata.
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