Quanta profonda rabbia mista ad astuta strategia. Il furioso anatema lanciato da Erdogan contro l'Unione Europea, contro Federica Mogherini, e contro l'Italia, è tipico del presidente turco Tayyp Erdogan adesso esacerbato dal golpe: da una parte rivela una natura incontinente abituata a punire, a eliminare, a rinchiudere: un despota.
Ma in realtà i sultani sulla cui memoria Erdogan si misura erano più misurati nel gestire il potere che gli era attribuito dal ruolo. Ha fatto bene Renzi a rispondergli seccamente sul figlio indagato per riciclaggio a Bologna: Erdogan immagina che avere buoni rapporti con un Paese significhi poterlo svillaneggiare, accusare di lesa maestà e ottenere quindi che si pieghi all'intimidazione e alla minaccia. La mafia non c'entra nulla, è solo un'allusione antitaliana volgare: la minaccia è per noi quella di una crisi con la Turchia che porta il colore dell'invasione di profughi. La sua aggressività non comporta una crisi diplomatica, ma epocale, fatale. Erdogan è arrabbiato? Si, ma non è solo preda del suo caratteraccio: nell'attacco alla UE si legge bene il calcolo e la delusione storica. Il patto con l'Europa del 18 marzo, con cui in cambio di un sostanziale, indispensabile sostegno turco al contenimento dell'immigrazione irachena e turca si sono promessi visti liberalizzati a 75 milioni di turchi e svariati miliardi, oltre alla riapertura dei colloqui sull'ingresso in Europa, è a rischio nostro malgrado.
Erdogan ha spaventato tutti con la sua reazione sanguinaria e liberticida del post golpe: è difficile prescindere dal possibile ripristino della pena di morte, per altro già praticata, dai 15mila arrestai, dai 70mila sospesi dal lavoro, dalle centinaia di scuole chiuse, dai 130 giornali serrati. Erdogan attacca per difendersi, minaccia e ricatta per ottenere quello che vuole: di soldi ne sono arrivati pochini (solo 3 milioni), l'Europa medita un piano b che mette in mezzo la Grecia e le sue isole. La delusione della Turchia ribolle ormai da anni: dal successo strepitoso nel periodo della Primavera Araba in cui tutto il mondo inneggiava al Paese musulmano moderato amico degli americani e quasi europeo la Turchia è passata ad essere un Paese attaccato spietatamente dal terrorismo, passerella dei freedom fighters, dalla politica estera fallita, rientrato in rotta di collisione col suo nemico storico, la Russia; l'alleanza con la Siria, si è rovesciata completamente, il rapporto con gli USA, si è sgretolato, l'appartenenza alla Nato che perde ogni giorno di significato mentre ne acquista quello di leader della Fratellanza Musulmana, fratello di Hamas e amico intimo del Qatar. E adesso l'attacco in Libia che punisce il suo protetto, il governo di Tripoli, favorendo quello di Tobruk subito dopo il colpo più duro, il tentativo di colpo di stato. E pensare che la Germania non gli ha nemmeno permesso di arringare i suoi che a Colonia hanno fatto un rally di 30mila persone in suo onore. Erdogan è esploso: o fate come voglio io, o vi punisco con un'invasione di profughi. Questo è il messaggio.
Che rabbia quest'Europa, eppure era sulla buona strada.
Quando la Mogherini in giugno ha richiamato l'ambasciatore Hansjorg Haber che aveva osato dire che Erdogan usava una «definizione troppo larga di terrorismo» per compiere le sue purghe, sembrava che avesse capito l'antifona. E invece non è così. A volte anche i sultani esagerano e forse ormai l'Europa ha più da perdere che da guadagnare da questo leader che vuole rifarsi a gomitate.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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