Molta nebbia avvolge ancora la stagione delle stragi italiane, e su quella che la sera del 23 dicembre 1984 sventrò il rapido 904 in corsa tra Firenze e Bologna la nebbia è più fitta che altrove. Ora l'ultimo tentativo di dissiparla almeno in parte svanisce davanti alle disfunzioni della giustizia. Il processo d'appello si inabissa, chissà quando riprenderà. E a rendere tutto più grave c'è che l'unico imputato si chiama Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, ottantasettenne, due tumori, in condizioni quasi terminali: il processo potrebbe non ricominciare mai o terminare prima della sentenza «per morte del reo». O supposto tale.
Il colpo di scena avviene a Firenze ieri mattina davanti alla Corte d'appello e ha tre protagonisti. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando che nel giugno scorso, su pressione della Corte europea dei diritti dell'uomo, ha cambiato, con la legge che porta il suo nome, le regole dei processi di secondo grado; i vertici della Corte d'appello di Firenze che hanno assegnato il delicato fascicolo a un giudice prossimo a andare in pensione; e Luca Cianferoni, difensore storico di Riina, che in questo varco si è infilato chiedendo che - come prevede la nuova legge - si tornino a interrogare in aula alcuni testimoni e soprattutto Giulio Vadalà, il perito che analizzò i sedici chili di esplosivo piazzati sul nono vagone del treno. Siccome il giudice andrà in pensione a ottobre il tempo materiale per i nuovi interrogatori non c'è più. E così il processo, già iniziato da mesi e già arrivato alla requisitoria del procuratore generale - che per Riina aveva chiesto l'ergastolo - esce dall'agenda. Sconcerto, come intuibile, tra i familiari delle sedici vittime, che da trentatré anni cercano un perché alla loro tragedia. E pronta reazione del ministero, che difende la nuova norma, «ineluttabile», e promette che per il nuovo processo non si dovrà attendere troppo a lungo. Si vedrà.
Processo, d'altronde, nato in modo oscuro e faticoso. Per la strage ci sono già all'ergastolo due colpevoli definitivi, il palermitano Pippo Calò, cassiere della vecchia mafia e pure in rapporti con la criminalità romana, e il malavitoso Guido Cercola, e pene minori sono andate un nugolo di personaggi di contorno, sparsi nel sottobosco tra ultradestra e delinquenza comune: ma il motivo della strage, quello non si è mai capito. Fino a pochi anni fa, quando - interrogato dai pubblici ministeri napoletani - il pentito Giovanni Brusca (che all'epoca rischia di vedersi revocato il programma di protezione) fruga nei ricordi e tira fuori due nuove rivelazioni. Una riguarda Marcello Dell'Utri, e si rivela rapidamente una fandonia. L'altra riguarda il massacro del 1984: «Riina sa qualcosa della strage del 904», dice Brusca.
Le rivelazioni approdano a Firenze, e qui sembrano andare a colmare la voragine che finora aveva segnato le indagini, indicando il motivo per cui - rompendo una tradizione secolare - nel 1984 Cosa Nostra avrebbe scelto di colpire degli innocenti. Ai boss, sostenne la Procura di Firenze, occorreva «fare pressione sui propri referenti politici, i Salvo e Salvo Lima, per incidere sull'esito del maxiprocesso» in corso a Palermo.
Vero, o almeno verosimile? In primo grado, Riina viene assolto. La Procura di Firenze insiste, fa ricorso, a giugno inizia il processo d'appello: a presiedere viene designato Giardina, che ha già deciso (anche se ha solo 66 anni, e potrebbe restare in servizio fino al 2021) di andarsene in pensione quest'autunno. Alla prima udienza, Riina appare in videoconferenza: immobile su una barella, la larva cui da tempo familiari e legali chiedono che venga consentito di morire da uomo libero.
Il pm insiste: il Semtex usato per la strage fu uguale a quello che era nella disponibilità di Riina. L'avvocato di u' Curtu insorge: richiamiamo in aula Vadalà, il perito degli esplosivi. A quel punto il processo, e con lui l'ultima evanescente speranza di verità, si blocca. Forse per sempre.
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