Un giudice sdogana la sharia in Italia

Comprata in Arabia per 2mila dollari e sposata. Ma per una toga di Napoli le nozze sono valide

Un giudice sdogana la sharia in Italia

Evviva, la sharia è arrivata anche in Italia. I buonisti e i «politicamente corretti» potranno finalmente gioire e ringraziare il Tribunale civile di Napoli che ha aperto la strada alla legge islamica nel nostro Paese. Non è uno scherzo, ma l'italica tradizione di non scontentare nessuno, pure a costo di andare contro la nostra cultura, la nostra tradizione, i nostri valori e anche contro i più elementari diritti dell'individuo.

Di che meravigliarsi? Siamo abituati a rinnegare noi stessi. E il Tribunale di Napoli non fa altro che ricordarcelo con una sentenza che ha permesso a una coppia musulmana di ricongiungersi in Italia, anche se in base al nostro diritto, ma anche al semplice buonsenso, il loro matrimonio non ha valore. Yusuf M., infatti, ha sposato Osman S. in Arabia Saudita nel 2013, secondo un rito che di matrimonio non ha nulla ma è una semplice transazione commerciale. Yusuf ha di fatto comprato la sua sposa per 2mila dollari, con l'ausilio di un mediatore e garante, e nella transazione c'era pure la clausola con il diritto di ripudio. Ora possono anche raccontarci che bisogna rispettare le tradizioni e la cultura altrui e che queste nozze sono giuridicamente sostenibili, ma restano comunque inaccettabili per un Paese civile. Qui si tratta di riconoscere legalmente che si possa comprare una moglie, una moglie come semplice merce, di inserire nel nostro diritto la sottomissione, l'inferiorità, di fronte alla legge, di una donna.

Come aprire alla schiavitù. E questa decisione crea un importante e pericoloso precedente. La storia di Yusuf è emblematica. Poco dopo il matrimonio si trasferisce in Italia, dove lavora regolarmente come geometra, e passati alcuni mesi chiede al consolato italiano di Gedda, in Arabia Saudita, il ricongiungimento con Osman. La nostra sede diplomatica però non concede il visto alla donna perché manca la documentazione idonea a «dimostrare la condizione di coniuge». Il marito allora ricorre al tribunale di Napoli e i suoi legali motivano il ricorso affermando che al di là della forma c'è la sostanza, cioè la volontà dei due di costituire un nucleo familiare. Il nostro ministero degli Esteri, dal canto suo, non contesta il matrimonio islamico ma cerca di dimostrare che non sia rispettoso della sharia.

I funzionari della Farnesina, dopo aver interrogato Osman, hanno riferito che la donna ha confessato che le nozze di fatto non esistevano e che il marito non era neppure presente a Gedda quando era stato sottoscritto il contratto di «acquisto». Ma non basta. Il religioso che avrebbe celebrato le nozze non ha neppure alcuna qualifica, risultando per le autorità saudite un semplice operaio. Aria fritta, però, secondo il giudice Marina Tafuri, che accoglie il ricorso di Yusuf. «In assenza di elementi probatori che con certezza dimostrino la non autenticità del documento in parola, deve reputarsi che il rapporto di coniugio nel caso trovi fondamento». Coniugio? Ma che vuol dire? Pare un bizantinismo per l'impossibilità di definire legalmente questa unione e quindi navigare pilatescamente tra le larghe maglie del nostro diritto.

Il giudice però nega il risarcimento chiesto da Yusuf per i due anni di forzato allontanamento dalla sua «amata». Ma i suoi legali non demordono e sono ricorsi in appello affinché al marito devoto sia riconosciuto un risarcimento di 20mila euro. Magari Yusuf troverà un altro giudice disposto ad accontentarlo.

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