Non è un paese per chi investe. Poche chance nell'immobiliare, che resta oppresso da una patrimoniale sotto forma di Imu e Tasi da 21 miliardi all'anno, come continua a denunciare Confedilizia. Ma anche alzare una saracinesca o comprare macchinari per tentare una attività in proprio nell'Italia del reddito di cittadinanza resta un azzardo. Da anni Unioncamere misura il tasso di imprenditorialità del paese attraverso il saldo tra iscrizioni e cessazioni al registro delle camere di commercio.
Il 2019 non inizia sotto i migliori auspici. Nei primi tre mesi dell'anno il bilancio tra aperture e chiusure di imprese ha segnato un calo dello 0,4% rispetto al 2018 che corrispondente, in termini assoluti, a un saldo negativo di 21.659 imprese. Le cessazioni sono aumentante di molto passando a 136.069 contro le 128.628 del 2018, mentre le iscrizioni sono aumentate di poco: 114.410 contro le precedenti 113.227.
Sintetizzando, ogni giorno circa l'Italia ha perso 240 aziende. Ogni 24 ore 1.511 imprese si sono cancellate dal registro, contro le 1.271 che si sono iscritte.
Una conferma della cronica mancanza di competitività, ma non solo. Unioncamere spiega che il trimestre «interrompe bruscamente il percorso di rientro per quanto breve che, dopo il 2013, si era andato manifestando con una ripetuta attenuazione della perdita di imprese».
Le cessazioni di inizio 2019 sono il peggior risultato da cinque anni a questa parte, alimentato soprattutto da un emorragia di piccole imprese artigiane.
Difficile che il decreto crescita riesca a invertire la tendenza. Anche proiettando l'azione del governo nel futuro, i segnali sono poco incoraggianti dal punto di vista degli imprenditori.
Ieri Confindustria ha sottolineato come il Documento di economia e finanza del governo gialloverde «dice poco». Il Def «accenna a una riforma fiscale, che è una priorità, ma senza indicare dove recuperare le risorse. L'assenza di decisioni crea incertezza, mentre andrebbe restituita fiducia: alle famiglie, per evitare che accrescano il risparmio a fini precauzionali; alle imprese, affinché aumentino la propensione agli investimenti; agli investitori, perché si riduca il premio al rischio e scendano i tassi di interesse».
In attesa di un cambio di passo nelle scelte di politica economica, restano le incertezze. Sempre dalla congiuntura flash di Confindustria emerge che nei primi mesi del 2019 «Il Pil italiano come atteso ha smesso di ridursi». Si rafforza la possibilità che l'economia italiana esca dalla recessione tecnica. Ma la mini festa è già finita visto che «lo scenario a inizio del secondo trimestre resta fragile e incerto».
Confindustria conferma che la ripresa della produzione industriale è stata «in gran parte» determinata dalla «ricostituzione di scorte, facendo presagire una nuova flessione a breve». Preoccupa in particolare «il calo degli ordini industriali (-2,7%), soprattutto esteri». Poi l'Indice Pmi sugli ordinativi «sceso ancora nella manifattura, in zona contrazione (47,4), pur salendo nei servizi». Non tutto dipende dalle scelte fatte dalla politica in Italia. Questi ultimi indici risentono ad esempio del clima di incertezza internazionale.
Ma preoccupano anche i margini di manovra strettissimi. La prossima legge di bilancio non potrà che incorporare una manovra «ingente, con effetti recessivi».
Secondo il centro studi di Confindustria se scattassero gli aumenti dell'Iva il Pil si ridurrebbe dello 0,3%. Unica chance, la flat tax, ma finanziandola solo con tagli alla spesa. Niente patrimoniale. Poi chiedere all'Europa la cosiddetta Golden rule, cioè l'esclusione degli investimenti dal deficit.
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