Grand hotel della vergogna: una favela in riva al Tevere

Accampamenti fra la sporcizia a due passi dal centro. Le autorità fanno finta di non vedere e nessuno interviene

Grand hotel della vergogna: una favela in riva al Tevere

Roma - L'odore impregna i vestiti, la pelle, il respiro. Sono miasmi che salgono dalle radure nei canneti quasi invisibili agli occhi, dai sacchetti sudici appesi sugli alberi. Ogni sacchetto segna una latrina. La spazzatura è sgranata sui gradini che affiancano gli argini, infilata nella vegetazione fittissima, esplosa sulla pista ciclabile con disordinati resti di un'umanità disperata: reggiseni, lattine di birra, cartoni del latte. Come se una discarica avesse vomitato tutto il suo orrore fino al bordo dell'acqua. C'è una città dieci metri sotto la città, che straripa in superficie con tracce di vita da naufraghi, o da uomini topi emersi dalle viscere della terra. È il mondo nascosto e putrido che vive lungo il fiume. Nel pieno centro di Roma, un chilometro in linea d'aria dalla Cassazione, meno di tre da piazza Navona e proprio all'altezza dello stadio Olimpico, dove spumeggia il più grande divertimento della Capitale. C'è una foresta che cresce al livello del corso d'acqua. Ed è sempre più abitata.
Favela Tevere. Tra il quartiere Prati e Ponte Milvio, una zona dimenticata eppure così centrale, dove un intrico di vegetazione mai domata sta divorando gli argini. Calvino avrebbe potuto ambientare qui un Barone Rampante non figlio di nobili, ma arrivato dalle fogne, che vive come uno zombie muovendosi senza vedere mai il cielo, coperto al mondo da un tetto di foglie di canne. Qui si vede Roma dal basso. Sono due i livelli degli argini sotto la strada. Il primo, la pista ciclabile. I cumuli d'immondizia raccontano della vita che si svolge poco più sotto. Le pile di rifiuti crescono ogni giorno. Passano anche le automobili, nonostante il divieto. Non c'è nessun controllo, sebbene questa sia la zona più pattugliata di Roma, durante la partite. Per scendere, bisogna affrontare la sporcizia di maleodoranti gradini, o di rampe infestate di rovi e rifiuti, che conducono sul bordo fangoso del Tevere. Il fiume che gli antichi romani consideravano un Dio ora è la pattumiera della città. Qui sotto non arriva quasi mai nessuno. Troppa sporcizia, un fetore che morde la gola, orde di insetti che sembrano portare i vapori del fango.
Questo è l'inferno malsano degli uomini topi. Alle sette di sera sono tutti in giro dieci metri più sopra, sparsi nel quartiere, a caccia di elemosina e di espedienti. Stranieri di varia nazionalità, ma irreperibili per qualsiasi anagrafe, non censibili, inesistenti. I fantasmi del fiume entrano ed escono dal loro labirinto attraverso impercettibili passaggi tra i rami. Le prime tane sono due barconi in secca. Erano i battelli destinati ai viaggi sul fiume, quando il Comune pensava di trasformare Roma in Parigi. Inclinati su un lato, l'interno invaso di arbusti. Una bottiglia è appoggiata a un oblò. Le tracce sulla sabbia dell'ingresso testimoniano di un luogo abitato. La terza e la quarta sono poco distanti, due tende e un'amaca intuibili solo se si infila lo sguardo nella recinzione che chiude due ex campetti da calcio. Li aveva voluti Rutelli. Ora è impossibile entrare per chi non conosce le brecce tra i rovi. La quinta capanna è un ex bunker della Marina, che conduce a un tunnel lungo l'argine. All'imbocco della caverna di cemento sono accatastati un cuscino ormai nero, una coperta infangata, il pezzo di un cestino bianco. Un piccolo sentiero tra le piante trafitto di rifiuti è occupato da un materasso. A sinistra compare un ex casa cantoniera. Sui gradini e alle finestre, vestiti appesi, bottiglie d'olio. Si scorge un altro materasso tra i rami. Qui c'è un uomo. Sta dormendo, il grande corpo avvolto da un lenzuolo strappato. Inizia il tratto dei canneti. L'occhio si abitua agli spiragli. Scova piccole capanne erette con stracci e bambù. Tre, quattro, cinque. All'interno di un'apertura c'è un salotto: mobili da cucina, un tavolo coperto da una tovaglia a fiori. Dall'orizzonte dell'argine avanzano due uomini.


Per allontanarsi bisogna correre, veloci e senza paura, circondati da buste, bottiglie, pannolini, vetri. Perché qui se si urla non sente nessuno. Qui non viene mai nessuno. È l'abisso di un'oscena favela. La Roma infernale nascosta sotto la storia.

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