La tragica contraddizione dei professionisti dell'antimafia

Professionisti dell'antimafia li chiamava Sciascia. Ma il professionismo logora la purezza delle intenzioni. E Maniaci è solo l'ultimo caso

La tragica contraddizione dei professionisti dell'antimafia

Se per un caso ipotetico della sorte esistesse davvero (e ancora) l'antimafia, non diciamolo. Non pronunciamolo questo sostantivo. Ché di paladini finiti nello stesso fango che dicevano di combattere a parole ce ne sono ormai così tanti che è finito l'inchiostro per scriverne. Professionisti dell'antimafia li chiamava Leonardo Sciascia nell'ormai celebre articolo del 1987. Ma professionismo è ambizione e logora la purezza delle belle intenzioni. Delinquenti dell'antimafia potrebbero essere definiti un domani, quando e se le indagini e/o i processi a loro carico dovessero finire con una condanna. Al momento di sicuro c'è solo una cosa: il confine troppo labile tra legalità e illegalità che non rispecchia il confine netto che ci dovrebbe essere tra una parola e il suo contrario. Mafia e antimafia, appunto. Dove stanno le differenze?

Se uno come Pino Maniaci, direttore di Telejato, trasmissione delle denunce più gridate contro Cosa Nostra, viene indagato e beccato mentre compie un'estorsione con metodi mafiosi, le differenze si annullano in un solo colpo. Nella terra del Gattopardo, cambiare tutto per non cambiare nulla. Prendete uno come Roberto Helg, per anni presidente della Camera di Commercio di Palermo. Lui che pontificava sulla lotta al pizzo, che promuoveva iniziative contro la criminalità organizzata, condannato in primo grado per aver chiesto e intascato una tangente da centomila euro da un commerciante che chiedeva il rinnovo dell’affitto di alcuni locali dell’aeroporto siciliano, sì, quello intitolato a Falcone e Borsellino.

Paradossi quasi grotteschi. Che si ripetono. Ciclicamente. Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato per la legalità, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa da alcuni collaboratori di giustizia. E sempre per rimanere in Confindustria, non si può non citare un'altra icona della legalità, Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria, indagato per associazione a delinquere nello scandalo Tempa Rossa.

Il paradosso diventa ancora più evidente quando l'antimafia combatte la presunta falsa antimafia che poi si rivela invece vera antimafia. Come il caso calabrese di Carolina Girasole, ex sindaco di Capo Rizzuto, vittima di intimidazioni e macchine bruciate, accusata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro di essere stata eletta nel 2008 grazie ai voti della cosca Arena e poi assolta da ogni accusa. Confini troppo labili, etichette troppo rigide e parole svuotate. Se questi sono i professionisti dell'antimafia, allora torniamo ai dilettanti, a quelli che non hanno ambizioni e che forse hanno pure più anticorpi, a quelli che non acquisiscono il potere che un domani potrebbe corroderli. Torniamo al silenzio.

Lo stesso silenzio dei ragazzi di Telejato che ogni giorno affrontano intimidazioni, che non vincono premi e non vanno sui giornali, che provano a fare informazione in territori impervi sfidando ignoranza e connivenze. Parliamo semplicemente di persone oneste, che lottano ogni giorno contro la criminalità. E non pronunciamo più quella parola.

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