L'altro ostaggio dimenticato. E disoccupato

Otto mesi in mano ad al-Qaida nel 2014, Gianluca Salviato ha perso tutto

L'altro ostaggio dimenticato. E disoccupato

Solo chi in quell'inferno libico ci è finito davvero e ne è riemerso vivo sa cosa significa gioire per la libertà e piangere per la morte in una stessa, unica, lacrima. Per i due ostaggi che sono rientrati dalle loro famiglie e per i due compagni che sono invece rimasti uccisi.Per Gianluca Salviato, tecnico padovano sequestrato in Libia il 22 marzo 2014 e rimasto nelle mani di miliziani di Al Qaida per otto lunghissimi mesi prima di essere liberato dalla nostra intelligence, è come rivivere un incubo. A lieto fine, il suo, anche se il futuro non gli ha riservato ciò che immaginava «dopo tutto quello che ho passato». «Una vita normale». Oggi Salviato, 50 anni, sopravvissuto alla furia jihadista che imperversa davanti alle coste della Sicilia, è disoccupato. Senza un lavoro, senza un sussidio, vive grazie allo stipendio part time della moglie Maria. La metamorfosi è stata breve: al suo rientro in Italia, l'azienda per cui lavorava e per cui aveva rischiato la vita, la friulana Ravanelli, decide di abbandonare la pericolosa attività a Tobruk. Ecco che in neanche due mesi il tecnico si ritrova messo alla porta. L'amarezza è «estrema». I successivi dieci mesi si mantiene con l'assegno di disoccupazione, ma adesso «l'unica entrata che abbiamo è il part time di mia moglie» oltre che il buon cuore dei «tanti conoscenti che ci hanno aiutato». Non gli resta che l'ennesimo capitolo da scrivere nella storia di un'esistenza già reinventata per affrontare la crisi, in cui Salviato da artigiano schiacciato dalla recessione ha indossato gli scarponi, andando a calpestare l'infuocato terreno del cantiere dell'acquedotto della città libica, quello dove sarebbe poi stato sequestrato, una mattina qualunque. Disposto, «come tanti altri miei colleghi, a rischiare, certo, pur di lavorare». Adesso si rialzerà, giura, come ha sempre fatto; non vuole chiedere niente allo Stato che «mi ha già riportato a casa. Vorrei solo continuare a lavorare, ma a cinquant'anni non ti prende nessuno. Per questo ho impugnato il licenziamento». E sì, sono «ore pesanti» ci confida al telefono mentre la voce gli si rompe dal pianto. Sta «rivivendo tutto». Le botte, quelle che arrivavano «a intervalli di tre o quattro ore», il dolore fisico, «ho perso i denti per le percosse», l'angoscia, la paura di perdere il senno, insieme a se stesso. «Quando ha saputo di Fausto e Salvatore (i due ostaggi italiani rimasti uccisi ndr) mia madre mi ha chiamato piangendo, ricordando ciò che mi è successo». Che il padovano ha messo nero su bianco in un libro, Quel mattino sulla strada di Tobruk.

Ma è una cicatrice ancora fragile per un trauma «non davvero superato», sempre sul punto di riaprirsi, come già è successo per la sorte dei «nostri connazionali Valeria Solesin, Giulio Regeni, Giovanni Lo Porto». Infine la preoccupazione sempre viva per tutti i lavoratori che si trovano sui fronti caldi, «mandati allo sbaraglio senza una adeguata macchina di protezione e di sicurezza».

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