Lavoro, porte aperte coi social Ma attenzione ai dati personali

Riconosciuti i grandi vantaggi della rete. Lo Statuto dei lavoratori però vieta di indagare sui fatti privati

Lavoro, porte aperte coi social Ma attenzione ai dati personali

Quello che gli altri pensano di noi è qualcosa che ci insegue, che ci definisce. Secondo Warren Buffet, imprenditore e economista e filantropo «ci vogliono vent'anni per costruire una reputazione e cinque minuti per rovinarla». Nel mondo digitale, la reputazione assume diversi connotati rispetto al passato: ciò che è scritto non si cancella facilmente. Del resto, verba volant, scripta manent. Il tema della reputazione è centrale nella ricerca di un lavoro: le proiezioni di una persona online possono anche far capire all'azienda che il candidato ha una certa visibilità e una certa autorevolezza.

« una delle prime curiosità dell'esaminatore dopo i convenevoli di rito è stata quella di sapere come mai non fossi presente sui principali social network e il mio nome non rintracciabile sul più importante motore di ricerca. E così, tra le varie e già faticose peregrinazioni in cerca di una futura opportunità lavorativa, mi ritrovo pure mortificata, scoprendo che il riserbo è una nota di demerito oggigiorno e la completa estraneità al mondo virtuale, vista come un deficit», scrive MC a Lo Specchio dei Tempi de La Stampa.

Nel mondo moderno ci dimentichiamo spesso di quel confine che esisteva una volta tra pubblico e privato. Ma se la mancanza di profili sui social network può essere un ostacolo alla ricerca di un lavoro, anche la presenza assidua e costante sul web può costituire un problema.

Abbiamo chiesto a Emanuele Dagnino di Adapt (associazione fondata da Marco Biagi) cosa pensa del rapporto tra la web reputation e la ricerca attiva di un lavoro: «I social media hanno inciso profondamente sull'incontro tra domanda e offerta di lavoro sia dal punto di vista dei selezionatori che da quello dei candidati. I primi utilizzano i social media durante il processo di selezione: dal recruitment advertising all'employer branding, dalle attività di individuazione di candidati passivi a quelle di ricerca di informazioni sui candidati. I secondi non si limitano più alla consultazione di offerte di lavoro, ma sempre più utilizzano i social per attività di personal branding, ovvero di promozione di sé e della propria professionalità».

Prassi consolidata per i recruiter è quella di andare a guardare il profilo social del candidato. Ma è giusto o sbagliato? Emanuele Dagnino ci dice che non si tratta di una prassi legittima: «Se l'uso dei social media offre moltissime potenzialità nell'agevolare l'incontro tra domanda ed offerta di lavoro, non devono però essere sottaciuti i rischi anche, ma non solo, legali di alcune pratiche. In particolare, molti dubbi sorgono rispetto alla legittimità di indagini riguardanti i candidati attraverso la consultazione dei profili su social network non professionali (ad esempio Facebook ed Instagram). Su tali siti si possono trovare informazioni private e riguardanti opinioni personali del candidato. Al fine di tutelare la riservatezza del lavoratore e da prevenire utilizzi discriminatori delle informazioni che lo riguardano, l'art.

8 dello Statuto dei lavoratori vieta le indagini su opinioni personali e fatti non attinenti alla valutazione dell'attitudine professionale, cosa che porterebbe ad escludere la possibilità di tali ricerche. Anche la disciplina in tema di tutela della privacy incide in questo ambito, ponendo ulteriori dubbi rispetto a pratiche di trattamento di dati, talvolta anche sensibili, raccolti su tali piattaforme».

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