«Se saranno dispiegati in Europa dovremo rispondere allo stesso modo.. Le nazioni europee che acconsentiranno devono capire di esporre il loro territorio ad una ritorsione». Ascoltando la frase pronunciata da Vladimir Putin dopo il loro incontro a Mosca di mercoledì Giuseppe Conte ha sentito un brivido. Putin con quella frase non ha evidenziato soltanto i rischi a cui vanno incontro i Paesi europei che accoglieranno i missili americani sul proprio territorio dopo l'eventuale cancellazione del trattato Imf annunciata da Donald Trump. Con quella frase ha, innanzitutto, fatto capire a Conte di conoscere bene i limiti impliciti e oggettivi del rapporto d'amicizia tra Italia e Mosca ostentato dal nostro premier. Un'amicizia delimitata dagli impegni con l'Alleanza Atlantica e da quei rapporti d'amicizia con Trump che il nostro premier ha cementato. E che ieri sono sfociati in una telefonata tra il presidente americano e il premier italiano, raccontata da Trump in un tweet: «Ho appena parlato col premier italiano Conte». E giù lodi per la linea dura sull'immigrazione: «Il premier italiano Conte - ha scritto ancora Trump - sta lavorando duramente per l'economia italiana: avrà successo».
Amico, Trump. E amico anche Putin. Le due amicizie parallele, ma opposte in base allo schieramento internazionale, finiscono con l'imporci limitata libertà di movimenti. L'argomento più evidente per comprendere il paradosso è quello delle sanzioni europee alla Russia. Quelle misure costano sette milioni di euro al giorno alle nostre aziende. Nonostante questo non siamo, però, nelle condizioni di garantire a Mosca una valida azione politica di contrasto in seno all'Unione. Nel momento in cui l'isolamento in Europa ci preclude anche il sostegno di presunti amici come il premier austriaco Sebastian Kurz, durissimo nel chiedere la bocciatura della nostra manovra economica, è difficile illudersi che qualcuno a Bruxelles dia ascolto alle perorazioni dell'Italia sulle sanzioni a Mosca. Anche perché Angela Merkel e Emmanuel Macron dialogano e commerciano con la Russia nonostante le sanzioni. Altri invece, come i sovranisti ungheresi di Orban, hanno già un rapporto privilegiato con Mosca a prescindere dall'Italia. E tanto meno possiamo illuderci di saltare il fosso garantendo un «no» italiano capace di rompere l'unanimità della Ue e precludere il rinnovo delle sanzioni. Quel «no» ci costerebbe l'immediata rottura con un'America di cui abbiamo un disperato bisogno per garantirci la posizione di nazione di riferimento sulla Libia.
Ma anche qui il gioco di sponda è assai limitato. Da una parte l'«amico» americano ci è fondamentale per non venir sopravanzati da una Francia pronta a prendere il nostro posto a Tripoli. Dall'altra l'aiuto di un Putin, grande protettore del generale Khalifa Haftar, è indispensabile per strappare l'uomo forte della Libia, dall'abbraccio con Macron convincendolo a scendere a patti con noi e il governo di Tripoli. Ma cosa possiamo offrire in cambio? Trump guarda alla Libia come a un territorio marginale per gli interessi Usa e si accontenta della politica di rottura svolta dal governo gialloverde in seno ad una Ue considerata il regno della nemica Angela Merkel. Lo scompiglio dell'assetto europeo garantito a Trump ci trasforma però in un cane che si morde la coda. Privi di seguito sull'asse Parigi-Bruxelles-Berlino abbiamo poche speranze di garantire a Mosca le aperture europee indispensabili a Putin per sopravanzare gli Usa. E così anche agli amici russi abbiamo assai poco da garantire.
Di sicuro assai meno di quanto mettesse sul piatto un Silvio Berlusconi che - nonostante gli attriti con Merkel e Sarkozy - restava un amico prezioso grazie anche agli ottimi rapporti dell'epoca con l'America di George W. Bush. Mentre l'Italia di Conte, orfana dell'Europa, rischia di diventare solo la serva di due padroni.
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