Un po' la naturale allergia grillina per la libertà di opinione, un po' il terrore che si rinsaldi un'alleanza di centrodestra Berlusconi-Salvini che li metterebbe in grave difficoltà politica: non è difficile spiegare l'improvvisa offensiva di stampo erdoganiano dei Cinque stelle contro l'editoria in generale e Mediaset in particolare.
In pochi giorni, e in singolare coincidenza con la ripresa di dialogo nel centrodestra sulla Rai e sulle elezioni regionali, si è assistito ad un crescendo rossiniano di minacce. «Per Berlusconi è finita la pacchia», ha tuonato due giorni fa il sottosegretario con delega all'Editoria Vito Crimi, dalle compiacenti colonne del Fatto Quotidiano. Annunciando una vera e propria rappresaglia contro Mediaset: «Basta favori a Berlusconi, occorre ridistribuire la pubblicità», dice Crimi, che assicura che verranno introdotti nuovi «tetti pubblicitari per le tv» (sottinteso: quelle fondate dal Cavaliere) per mettere in atto «un meccanismo di redistribuzione delle risorse all'interno del sistema». Il Fatto, che bada al sodo, si occupa diligentemente di tradurre in cifre le minacce di Crimi: «Mediaset rischia un salasso da 750 milioni l'anno: il 20% dei ricavi», annuncia trionfante il foglio filo-grillino di Travaglio.
Non essendo esattamente dei raffinati strateghi politici, gli esponenti del partito Casaleggio non realizzano che così, in fondo, aiutano la trattativa salviniana con il Cavaliere: più loro sbraitano e minacciano, più il ministro dell'Interno può presentarsi come mediatore e garante contro le intemperanze grilline in casa azzurra.
Ma l'avversione dei Cinque stelle per l'informazione non controllata dalla Casaleggio va oltre l'odio mortale per Berlusconi: lo si intuisce da reazioni irate come quelle del solitamente flemmatico premier Conte contro chi ha svelato il suo tentativo di partecipare ad un concorso universitario ad hoc, costringendolo a rinunciare: «Un esercizio inaccettabile della libertà di stampa!», è insorto. Il medesimo Crimi continua ad affermare che «taglieremo i finanziamenti pubblici ai giornali», che in realtà non esistono più da anni se non per piccole testate edite da cooperative o da enti senza fine di lucro o minoranze linguistiche. Del resto, loro i giornali non li leggono, come rivendica Luigi Di Maio che spiega di informarsi su «blog indipendenti» (facile capire quali) e di affidarsi «alle piazze e ai social». Il vicepremier ha anche avuto un'idea brillante per punire i giornali rei di criticare il governo: «Il lettore ha il diritto di sapere chi possiede il giornale che legge e tutti i conflitti di interesse», ha scritto la notte scorsa su Facebook, proponendo che il nome dell'editore «venga indicato» sulla testata. Mal gliene incolse, però: oltre agli scontati «evviva» dei militanti grillini, infatti, il vicepremier si è beccato una raffica di ironie per lo svarione in cui è inciampato: «Gigi, ti dò una notizia - gli ha spiegato un utente - per tutti i giornali, dal 1948, è già obbligatorio per legge indicare editore, direttore, proprietà e stampatore. È in una parte del giornale che si chiama colophon, facilmente reperibile e con tutte queste informazioni».
Peccato, gli fanno notare altri, che una simile garanzia non sia invece prevista per i blog. «Quindi se i 5 Stelle sono di proprietà della società privata Casaleggio Associati lo devono scrivere nel simbolo, e pure sulla testata del blog?», chiede sarcastico un lettore. Nessuna risposta da Di Maio.
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