È un minestrone che spiazza un po' tutti. «L'avesse fatta ai suoi tempi Berlusconi, oggi noi magistrati saremmo in sciopero contro questa riforma - spiega Fabio Roia, voce storica di Unicost e ora presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano - Ma oggi siamo in crisi e dopo il disastro Palamara la reattività della categoria è bassissima». «Questo testo è molto timido rispetto alle aspettative - è la replica affilata di Alessio Lanzi, laico di Forza Italia al Csm - si indeboliscono le correnti con l'introduzione del sorteggio nel percorso di accesso al Csm, ma non c'è stato il coraggio di andare fino in fondo. Non si tocca il tema delle intercettazioni e non è prevista la separazione delle carriere, da noi prospettata nel 2011, quando avevamo immaginato la creazione di due Csm».
Matteo Salvini, in uno sfogo raccolto dal Corriere della sera, distilla la sua delusione per il progetto portato in consiglio dei ministri dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, e dice testualmente: «Si sono fatti fregare». Evocando i Gattopardi del partito dei giudici e i «magistrati del ministero», fra cui, anche se non è citato esplicitamente, Mauro Vitiello, capo dell'Ufficio legislativo. Etichettato come toga rossa.
In effetti Vitiello, giudice fallimentare prima a Milano e poi a Bergamo, viene dalla corrente progressista di Magistratura democratica, cosi come uno dei suoi due vice: Concetta Locurto, per un certo periodo coordinatrice milanese di Area, il cartello delle toghe di sinistra. E però fu proprio la Locurto la coraggiosa relatrice della sentenza d'appello che mandò assolto il Cavaliere per il caso Ruby, vicenda per la quale il giudice fu attaccato ferocemente da più di un collega.
Anche Vitiello, fra le altre cose presidente della Commissione regionale tributaria, gode di ottima fama a Palazzo: giudice esperto e capace, con una low profile ideologico.
Il capo di gabinetto di Bonafede, il salernitano Fulvio Baldi, è poi espressione di Unicost, il corpaccione centrista della magistratura italiana.
Insomma, la lettura con gli occhiali della politica giudiziaria tradizionale aiutano fino a un certo punto. Forse contano altrettanto se non di più le origini sul territorio, i rapporti personali, una certa cipria corporativa. E cosi la sintesi trovata è il punto di equilibrio, fragile e ballerino, fra le spinte garantiste della Lega e le fibrillazioni giustizialiste dei Cinque stelle. Il testo, su cui si litiga in queste ore, dà con il sorteggio un colpo formidabile al correntismo in toga, ma la svolta non è compiuta. Anzi. «La proposta Bonafede - nota Renato Bricchetti, ex numero uno dell'Ufficio legislativo e oggi presidente della quarta sezione penale della Cassazione - ha alle spalle un peccato originale, ovvero la riforma della prescrizione che, comunque vadano le cose, entrerà in vigore il 1 gennaio 2020. In questo modo, con il congelamento previsto dopo il primo grado, avremo eterni giudicabili». Imputati sempre sotto il tiro dei pm.
Si, perché non basta imporre per legge tempi più celeri nelle inchieste per avere un'accelerazione dei procedimenti, come promette la norma appena scritta. «Ci vorrebbero interventi mirati - precisa Bricchetti - tenendo conto delle diverse realtà del nostro Paese. Nei distretti di corte d'appello di Roma e Napoli ci sono 50mila fascicoli penali pendenti, a Milano solo 8 mila». Una realtà a macchia di leopardo, come ha scritto tante volte nei suoi saggi Michele Vietti, ex vicepresidente del Csm.
Più giacobinismo in cambio di maggior efficienza: questo il mix studiato in via Arenula. Ma lo scetticismo è una nebbia bassa che non se ne va. «Si dice che la giustizia avrà un altro passo, più rapido - conclude Roia - ma non è con la bacchetta magica che si risolvono i problemi.
Ci vorrebbero più risorse, più mezzi, più assistenti, ma all'orizzonte non si vede nulla di tutto questo». Se non la nuova prescrizione incombente che fa infuriare tutta l'avvocatura. La mischia gialloverde intanto continua.
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