Il processo silente che ha investito il Pd in questa campagna elettorale - e che è sotto gli occhi di tutti - ognuno può chiamarlo come gli pare: autorottamazione, commissariamento, soccorso rosso o, meglio, cattocom. O ancora: ulivista, eurocentrico, potereforzista (nel senso di poteri forti). Nei fatti, però, è consistito e consisterà nel ridimensionamento drastico di Matteo Renzi e nella nascita del PG, ovvero il «Partito di Gentiloni».
Il fatto stesso che il segretario incoronato dalle primarie abbia sentito la necessità di consolidare lo scranno scricchiolante («non mi dimetto se le cose vanno male») è un ulteriore segno di debolezza; di una disfatta che si avverte nell'aria. Anche perché già ora sono in molti nel Pd a ricordare che Veltroni andò via nonostante una rimonta che condusse il partito al 33% (contro un avversario palesemente troppo forte: il Berlusconi dominatore a tutto campo come oggi il Napoli di Sarri). Non solo: da una ricerca condotta dall'Istituto Cattaneo emerge come Renzi sia stato il leader maggiormente «attenzionato» (cioè seguito, se non blandito) dai quotidiani: da gennaio al 25 febbraio, una copertura pari al 40% degli articoli (ben 9.600) dedicati ai sei leader maggiori. Ebbene, nonostante questo, la popolarità del leader pd è talmente in picchiata da aver suscitato voci di protesta e dissenso persino nell'unica manifestazione del Pd che si voleva «unitaria» e sdolcinata, l'altro giorno al cinema Adriano. Renzi non detta più l'agenda politica: sorpassato in tromba da Berlusconi, Gentiloni e, persino, dall'«esordiente» Di Maio, che ieri ha ricevuto uno sconsolato plauso proprio dal capo del Pd per la «geniale operazione di marketing» dei ministri futuribili. Quando attacca, il segretario fa trapelare stizza, come con Berlusconi sulla flat tax («da lunedì sparirà»), e i grillini per «le poltrone che affascinano il dibattito elettorale come un reality». Intanto, però, il premier Gentiloni marcia come il diesel silenzioso che è: sicuro, affidabile, a regime costante. Si occupa di cose serie - ieri dei fondi per combattere la delocalizzazione e degli investimenti per le infrastrutture -, con esse fa propaganda, e riceve ulteriori endorsement del partito che fu (e che tornerà). Dopo Prodi, Napolitano, Veltroni, s'è rifatto vivo pure Enrico Letta per augurare a Gentiloni un voto che lo «rafforzi con la coalizione che lo sostiene». Nessun accenno al morente Pd renziano, chiara la linea prodiana che fa della microlista Insieme e di Gentiloni i catalizzatori capaci di produrre una nuova «fusione» (stavolta a freddo) dell'area di centrosinistra che recuperi anche Leu di Grasso. Il quale, non a caso, si è detto ieri per la prima volta «disponibile» a un governo di «scopo» con Renzi e il Cav (finora aveva giurato: «Mai con la destra»). E se il voto a Gentiloni è ormai sempre più percepito come voto anti-Renzi, al Nazareno c'è chi rompe l'ipocrita tregua pre-elettorale. In un'interessante intervista a Radio Cusano Campus, il vecchio europarlamentare Goffredo Bettini, già ras del partito romano, rileva come «la deriva personalistica di Renzi» abbia prodotto una «rottamazione solo interna, creando solo danni». Per Bettini, gran mentore veltroniano, s'intuisce che un ritorno di Valter «unificatore» sarebbe il toccasana.
«Lui è il più comunista di tutti noi, ha una visione sacrale del partito, non concepisce che nella stessa famiglia si possa litigare». L'uomo giusto per riannodare fili spezzati, insomma, mentre il «governo che governa» continui a governare (magari all'infinito).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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