«E h sì, dottore, io li ho praticamente presi in giro per trent'anni». L'ultimo sberleffo, nell'interrogatorio davanti al pm milanese Alberto Nobili, Cesare Battisti l'ha riservato a loro: agli intellò, gli scrittori di fama, i filosofi raffinati, i politici progressisti e le dame della buona società che per anni ne hanno fatto un'icona delle ingiustizie borghesi. Gente che non aveva letto una riga degli atti processuali a suo carico - quegli atti che ora Battisti riconosce come veri - e che però firmava appelli e manifesti, grondanti indignazione per il raffinato intellettuale perseguitato dall'Italia.
«Vede, dottor Nobili, io me la sono sempre cavata - dice Battisti - grazie agli appoggi che ricevevo: in Francia, poi in Messico, poi in Brasile. È stato grazie a loro che sono sopravvissuto».
Viene inevitabile ripensare al fervore degli appelli di Bernard-Henri Lévy, il fascinoso maestro dei nouveaux philosophes, alla devozione con cui François Hollande andò alla Santé a rendere omaggio al recluso eccellente; o alla battaglia degna di Emile Zola in cui si spese per intero il giornale simbolo della gauche caviar francese, Le Monde. Salvo poi pentirsi e chiedere scusa ai lettori. «Io, questi aiuti - ha continuato Battisti parlando col pm - li ho ottenuti dicendo che ero innocente e quindi raccontando un sacco di bugie». Bugie che in molti si bevvero fino all'ultima goccia, di qua e di là dalle Alpi. Come dimenticare la passione del vignettista Vauro nell'ergersi a paladino del nuovo Dreyfus? O la passione civile dello scrittore no Tav Erri De Luca nel denunciare la persecuzione giudiziaria di un'intera generazione, «la più incarcerata nella storia d'Italia»? Sarebbe bastato fare un salto in cancelleria, leggere le carte grondanti tragedie, per capire che razza di bestia sanguinaria fosse Battisti. Ma era più comodo prendere per buone le balle del sicario rosso, ingrediente perfetto della dieta a base di pane e indignazione di ogni intellettuale che si rispetti.
Di tutti i fessi - tali pare considerarli - che l'hanno protetto in questi anni, Battisti ha fatto un solo nome: Luis Ignacio da Silva ovvero Lula, già presidente brasiliano, attualmente in carcere. Fino a quando Lula restò al suo posto, il Brasile era per l'ex terrorista dei Pac il rifugio più sicuro del mondo. Per spiegare l'asilo concesso al latitante, Lula si spinse fino a sostenere che nelle carceri italiane si pratica abitualmente la tortura: a dirglielo era stato probabilmente sempre lui, Battisti, in una delle tante frottole raccontate e inghiottite senza fatica. Ora, per tutta riconoscenza, il terrorista descrive l'ex presidente carioca come un boccalone pronto a inghiottire l'amo.
E lo sberleffo un po' ingrato di Battisti è rivolto, di fatto, all'intero, interminabile elenco di creduloni che nel 2004 firmarono, all'indomani del suo arresto a Parigi, il manifesto pubblico per la sua liberazione. «Protestiamo contro questo scandalo giuridico e umano», tuonarono registi e poeti, docenti universitari e parlamentari. In testa, sul versante francese, c'erano scrittori di vaglia come Daniel Pennac e Gilles Perrault; sulla sponda italiana, loro colleghi anch'essi importanti, come Valerio Evangelisti e Giuseppe Genna. E poi, perso tra tanti altri nomi celebri o ignoti, c'era anche un giovanotto di nome Roberto Saviano, allora un venticinquenne semisconosciuto in cerca di fortuna editoriale. Della ricerca scrupolosa degli atti, dei documenti, delle prove, Saviano avrebbe fatto negli anni successivi la sua bandiera di giornalista. Ma quel giorno firmò a scatola chiusa, forse attirato dai nomi illustri di cui si ritrovava all'improvviso in compagnia. «Chiediamo l'immediata liberazione di Battisti!», tuonò Saviano in coro con gli altri indignati.
Cinque anni dopo, ormai divenuto famoso, si vergognò di quella firma, e pregò il sito che ospitava la petizione di cancellarla: «Non so abbastanza di questa vicenda, non mi appartiene questa causa». Ma non negò di averla firmata.Ora Battisti gli manda a dire: «Ho fatto fesso anche te».
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