Qualche giorno fa tre ladri hanno provato a entrare nella casa in campagna dove vivo. Alla fine dei Colli Albani (Castelli Romani) e la via che porta al mare: Nettuno, Anzio. Infatti ero là (mangio piuttosto tardi) mentre le donne la grande e la piccola stavano serene nella grande cucina con il camino che si affaccia da una vetrata sul giardino di ulivi. Squilla il cellulare e «la donna di casa grande» mi dice: «Non ti muovere! Qui ci sono persone che si fanno segnali con la torcia elettrica. L'allarme è stato disinserito. Stanno arrivando Italpol e carabinieri». La voce è calma come uno scherzo. Il messaggio, però, chiede disperato aiuto.
Ho un brivido che mi infesta la pelle. Un colpo di panico. Pigio a tutto gas e sono dinanzi al cancello. Vengo a sapere dall'agente dell'Italpol che i ladri sono ancora sul terreno. La donna mi racconta che si è vista un uomo di fronte, che ha avuto il coraggio di gridare «Vi sparo», pur non possedendo armi. Nel frattempo al posto dei carabinieri giunge una pattuglia della polizia. Capisco meglio che un individuo si è spinto fino alla porta-finestra e altri due, presumibilmente, aspettavano nel buio il segnale per avanzare. Di sicuro erano appostati da ore. Hanno osservato che partissi in auto. Che all'interno della casa non c'erano molte persone. Intanto i poliziotti si inoltrano tra gli ulivi, l'agente Italpol torna indietro scuotendo la testa, ripetendo che sono di sicuro scappati verso il fosso o a ovest rispetto alla via principale trafficata quanto l'Appia che corre parallela.
Dentro di me monta una rabbia che non conosco. Non è la solita che mi afferra quando non sopporto stupidità o altro. È una rabbia nuova. Inedita. Adesso mi viene in mente l'Ira di Achille che fa scempio di troiani nel fiume Scamandro prima del duello con Ettore. È per sorridere. Quel Canto drammatico, pur così superbo, mi sembra retorica letteraria. Invece la mia rabbia sale dalle budella. Ho avuto paura per le «ragazze di casa» e provocatoriamente dico all'agente: «Dammi la pistola, li vado a cercare io». In realtà posseggo una piccola rivoltella appartenuta a mio padre. Una specie di reliquia che tengo nascosta. E poi, anche se volessi usarla non servirebbe a niente. Quando mi rendo conto che i ladri se la sono svignata, ora che le ragazze si sono anche calmate, adesso che i cani scodinzolano come volessero loro continuare le ricerche, nel momento in cui la polizia mi sottopone il verbale da firmare, mentre mi accordo con l'Italpol affinché la macchina faccia un giro ogni due ore nella proprietà, capisco proprio che la proprietà privata non è più «un dovere» che va rispettato, come mi ha insegnato mio nonno Aurelio, perché oggi la proprietà - non dei grandi capitali ma di quelli che hanno fatto un culo per tirarla su - appartiene allo Stato o a chi se ne vuole appropriare indebitamente.
Ecco, in questo momento saluto e, carico di rabbia e impotenza, rientro in casa. Rifletto che se i ladri avessero varcato la finestra e messo piede qui dentro, e io avessi avuto in pugno o imbracciato pistola o fucile gli avrei sparato. Non perché mi rubavano, non perché mi portavano via la casa, no, gli sparavo perché strappavano il segreto della mia intimità. Avrebbero compiuto uno stupro. Non di tipo sessuale - terrificante -, bensì uno stupro che squarcia il velo del nostro pudore e permette a degli sconosciuti di camminare con gli scarponi chiodati dentro l'interiorità. Allora, l'indomani, mi sono mobilitato.
Con rispetto di ogni normativa comprerò un fucile automatico, sperando che non debba mai usarlo. Ma se qualcuno vuole stuprare la mia storia (perché il mondo interiore racconta la nostra storia) e quella di chi amo: io sparo anche se dovessi uccidere.
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