Sono passati quasi due anni da quando, il 25 maggio del 2014, Matteo Renzi ha testato nelle urne il suo gradimento nel Paese. In quell'occasione fu un trionfo, con il Pd che alle Europee portò a casa oltre 11 milioni di voti e il 40,8% dei consensi. Davvero niente male, soprattutto per un premier che è arrivato a Palazzo Chigi senza un'investitura popolare. Oggi, 21 mesi dopo, in qualche modo il test si ripeterà, molto probabilmente con risultati ed equilibri diversi rispetto a quelli del 2014. Di acqua sotto i ponti, d'altra parte, ne è passata. E le vicissitudini cui è andato incontro il governo - dall'affaire Banca Etruria fino all'inchiesta di Potenza che ha portato alle dimissioni del ministro per lo Sviluppo Federica Guidi - ne hanno intaccato credibilità e prestigio.
Insomma, dando per acquisito che solo con un miracolo si raggiungerà la magica soglia del quorum e che dunque il quesito è destinato a non essere valido, il valore politico del referendum sulle trivelle sta tutto nel quantificare la forza del fronte anti-Renzi. Il premier, infatti, è certamente uomo di comunicazione con un'innata capacità di attirare voti, ma in questi mesi ha anche iniziato a catalizzare un certo dissenso. Oggi ci sarà una sorta di grande prova generale: delle amministrative di giugno e, soprattutto, del referendum costituzionali di ottobre, quello sì determinante per le sorti della legislatura.
A Palazzo Chigi, dunque, oggi si monitorerà con grande attenzione il dato sull'affluenza. D'altra parte, sul punto Renzi si è speso fino ad invitare all'astensione e bollare quello sulle trivelle come un «referendum bufala». E tanto il tema è sensibile che nei giorni scorsi perfino l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano ha voluto benedire la scelta di chi oggi andrà al mare. Capire che impatto avrà il martellamento renziano pro-astensione, insomma, è fondamentale. Anche perché le opposizioni - chi con più passione, chi con meno - sono comunque schierate per il voto: dai Cinque stelle a Sinistra Italiana, passando per Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia, fino ad arrivare alla minoranza del Pd. La soglia di sicurezza, almeno stando ai numeri che si fanno nell'entourage più stretto di Renzi, è quella del 30% di votanti. Insomma, intorno ai 15 milioni di elettori alle urne (gli aventi diritto sono in tutto 51 milioni) per il premier sarebbe un successo. Tutto ciò che è oltre questa soglia, invece, rappresenterebbe un campanello d'allarme. Da non sottovalutare se l'affluenza dovesse arrivare al 35% (qualcosa meno di 18 milioni di votanti), decisamente preoccupante se toccasse il 40% con oltre 20 milioni di italiani alle urne. Sarebbe il segnale, infatti, che esiste un consistente fronte anti-Renzi, così battagliero da recarsi alle urne nonostante il quorum sia una sorta di miraggio e il pochissimo risalto dato dai media alla consultazione.
Più l'affluenza è alta, dunque, meno il premier può dormire sonni tranquilli. Anche perché il quesito sulla riforma costituzionale che si terrà fra sei mesi l'ha politicizzato lo stesso Renzi dicendo che in caso di sconfitta lascerebbe la politica.
Una sfida, quella di ottobre, che il premier dovrà affrontare senza lo scivolo del quorum. Per i referendum confermativi, infatti, non è previsto, il che significa che la vittoria il leader del Pd la dovrà ottenere dentro e non fuori le urne.
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