Era nell'aria da un po' e, guarda caso, l'ha messa sul piatto proprio il giorno della resa dei conti nel Pd dopo la batosta di domenica. Ieri, in una lunga intervista a Repubblica, Giuliano Pisapia ha messo nero su bianco la sua proposta: diventare il punto di riferimento di un «Campo Progressista», cioè di «un'alleanza aperta che riunisca le forze di sinistra in grado di assumersi una responsabilità di governo». Lo aveva già accennato nelle ultime settimane della campagna referendaria, per inquadrare il suo Sì alla riforma. L'ex sindaco di Milano vuole fare il pontiere di una sinistra che, più che altro, avrebbe bisogno di un pompiere. Così, mentre i dem bruciano per autocombustione e gli altri partono già divisi in micro correntine, lui si candida a fondatore dell'ennesima «Cosa rossa» che dialoghi con il Partito democratico, renziano o meno che sia.
A chi si stia chiedendo se Pisapia abbia il consenso per una simile operazione, dovrebbero bastare le reazioni dei vecchi compagni di strada: per il coordinatore di Sel Nicola Fratoianni l'idea è vuota e «dal fiato corto»; per un altro vendoliano piuttosto ascoltato, Massimiliano Smeriglio, non c'è interesse «a fare la sinistra del partito della nazione». Una bella pacca sulla spalla, dopo la bocciatura di Stefano Fassina, è arrivata anche dai bersaniani del Pd, con Davide Zoggia e Alfredo D'Attore che non vogliono fare «le stampelle del renzismo» e con Miguel Gotor che la liquida più o meno così: o nel Pd o morte.
Commenti al vetriolo si sono sprecati anche su Facebook da chi un paio d'anni fa non spostava una piuma senza l'approvazione di Giuliano e domenica invece ha barrato il suo bel No infischiandosene della linea del capo. L'uscita del grande condottiero del popolo arancione, insomma, dopo aver ricevuto la benedizione di Romano Prodi, è piaciuta soltanto ai sindaci (Beppe Sala, Massimo Zedda, Virginio Merola): non un segno di buon auspicio, visto com'è finito l'ultimo sindaco al governo. Consenso a parte, che già lo azzoppa ai blocchi di partenza, è sotto gli occhi di tutti la parabola discendente della sua breve carriera politica. Da sindaco ha fatto fatica a tenere insieme la propria maggioranza, mandando all'aria provvedimenti di non poco conto. Poi, non solo non si è ricandidato a guidare la città più ambita del Paese - limitandosi a un mandato in cui ha tagliato il nastro a diversi progetti (Expo compreso) della giunta di Letizia Moratti - ma ha gestito la successione inanellando un errore strategico dietro l'altro: prima proponendo alle primarie la perdente Francesca Balzani, poi cercando di ricucire con maldestri tentativi che, per un soffio, non sono costati la poltrona a Giuseppe Sala.
Un'escalation di pasticci che si pensava conclusa col suo pensionamento politico, magari con un bel premio di consolazione confezionato in qualche carica di prestigio (un ministero o una partecipata). E invece no: illudendosi di poter raccogliere la rissosa eredità di Vendola ora mischiata con Fassina e compagni, Pisapia vuole fare il grande mediatore, ma il rischio, che è quasi certezza, è quello di fare la fine dell'ennesimo kamikaze da 3% o poco più.
Magari, se la soglia di chissà quale legge elettorale lo permetterà, con qualche irrilevante posto in Parlamento, buono solo a dar fastidio. Il solito Nanni Moretti non ha insegnato nulla e di leader mancati (o falliti) la sinistra è piena: Pisapia è ancora in tempo per dire che, in fondo, voleva solo vedere l'effetto che fa.
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