L'industria energetica britannica è sotto choc. I principali analisti del settore sono concordi nel ritenere che nel breve periodo le conseguenze maggiori della Brexit saranno a carico dell'Europa; ma le previsioni per il medio-lungo periodo vedono le nuvole spostarsi sull'isola britannica. Il fattore critico sarà quello energetico: la fonte principale di petrolio e gas per il continente si sta trasferendo dal Mare del Nord al Mediterraneo.
Le compagnie petrolifere britanniche Shell in testa - erano fermamente schierate per il «remain» e ora fanno lobby per tirare il freno e aprire una lunghissima fase di negoziato durante la quale rimarrebbero in vigore tutte le normative europee. Nell'immediato, si prevede un rallentamento degli investimenti per nuove infrastrutture e una più decisa frenata nello sviluppo delle fonti rinnovabili. L'Europa, infatti, non avrebbe più alcun interesse a premere su Londra per il raggiungimento degli obiettivi previsti per il 2020. Per questo i titoli azionari energetici britannici hanno preso molto male il «leave» e anche il prezzo del petrolio ha accusato il colpo: dopo il sì il greggio americano Wti è sceso sotto quota 47 dollari al barile e il Brent ha subito un calo del 6,4 per cento. Ma, insieme al disastro prodotto dal Referendum, un secondo fattore rende precario l'equilibrio energetico dell'isola ormai extraeuropea: l'asse del petrolio si va spostando sempre più dal Nord al Sud Europa.
Infatti, ferve l'attività sulle numerose piattaforme petrolifere del Mare del Nord, ma non per l'estrazione di idrocarburi. La produzione è stata interrotta e sono iniziati giganteschi lavori di smantellamento di buona parte dell'industria petrolifera inglese, quella che negli ultimi 50 anni era considerata una delle più redditizie attività del Paese.
Entro il 2050 dovranno essere «decommissionate» bonificate, recuperate, trasportate sulla terraferma e fatte a pezzi - un numero enorme di infrastrutture: 470 piattaforme, 5.000 pozzi, 10.000 km di oleodotti e 40.000 blocchi di calcestruzzo dovranno abbandonare il Mare del Nord.
Per la prima volta nella storia dell'industria petrolifera inglese si stanno smantellando più impianti offshore di quelli che stanno costruendo. La produzione, che aveva raggiunto 4,5 milioni di barili al giorno sedici anni fa, ora è crollata a 1,5 e continua a scendere. Contemporaneamente, il numero di pozzi abbandonati, che per anni si era mantenuto entro il numero fisiologico di 5-10 pozzi all'anno, è balzato a 49 nei primi cinque mesi di quest'anno.
I costi di decommissionamento sono sempre stati inclusi nei contratti e quindi previsti nei piani di sfruttamento, ma nessuno aveva immaginato che i nodi sarebbero venuti al pettine tutti insieme. Il motivo risiede nel crollo verticale del prezzo del petrolio nell'estate del 2014, ma anche nella ragionevole certezza che non risalirà significativamente sopra i 50$ al barile perché l'Opec non ha alcuna intenzione di fare rientrare in gioco il petrolio di scisto americano e, appunto, l'olio del Mare del Nord.
Dopo l'olio di scisto (shale oil) di cui sono ricchi gli Stati Uniti e la cui estrazione richiede costose tecniche di idrofratturazione idraulica (fracking), il posto più caro del Pianeta per l'estrazione di idrocarburi è proprio il Mare del Nord. Le compagnie inglesi hanno resistito quasi due anni producendo olio e gas sottocosto sperando in un rimbalzo, ma ora hanno dovuto guardare in faccia la realtà e gettare la spugna. E questa è una scelta definitiva perché i costi di riavvio di un pozzo già abbandonato sono proibitivi.
Intanto, il Mediterraneo non finisce di sorprendere. Dopo Zohr - il giacimento supergigante scoperto al largo dell'Egitto - Eni continua ad annunciare nuove scoperte nel Mediterraneo. Il mare di casa nostra e l'intero continente africano stanno diventando sempre più importanti per l'equilibrio energetico mondiale e anche per il nostro Paese: attualmente Eni sta lavorando in Egitto, Algeria, Libia, Tunisia, Congo, Mozambico, Nigeria, Angola, Ghana, Gabon, Costa d'Avorio, Kenia, Liberia e Sud Africa.
Ma al nord, mentre le compagnie britanniche chiudono, la multinazionale battente bandiera italiana ha avviato la produzione di Goliat: un giacimento ad olio proprio nel Mare di Barents al largo della Norvegia, la più grande e sofisticata unità
galleggiante di produzione e stoccaggio (Fpso) cilindrica al mondo. La produzione sarà di 100.000 barili al giorno attraverso un sistema di 22 pozzi realizzati con soluzioni tecnologiche tali da minimizzare l'impatto ambientale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.