Più che di numeri nel Parlamento che verrà, saranno larghe di «vedute» le intese che vediamo addensarsi sull'orizzonte elettorale. Una su tutte, quella che nasce dalla possibile vittoria dei Cinquestelle. Possibile, ma tutt'altro che certa, anche se ormai il capo politico Luigi Di Maio ci ha preso gusto a parlare da premier incaricato. «Renzi e Berlusconi non avranno il 51 per cento dei seggi, noi saremo il primo partito e chiederemo a Mattarella l'incarico di governo», ha detto ieri il popolare Giggino, che ha intrapreso (pure lui) un viaggio denominato «Rally dei 100 giorni», che dovrebbe farlo piombare infine nel trionfo di Palazzo Chigi.
La prospettiva esiste. Di Maio ne parla come di «un'occasione di stabilità», visto che la nuova legge elettorale «favorisce coalizioni che si sciolgono il giorno dopo». E se un governo delle «intese variabili» a seconda dei provvedimenti da varare, che il M5S ha sempre vagheggiato e resta l'opzione ufficiale, è soluzione di cui ora persino Di Maio avverte l'insostenibile leggerezza (al limite della vaporosità), l'idea che prende corpo sempre più è invece quella di una maggioranza stabile assieme all'unico leader «nuovo» agli affari di governo almeno quanto i grillini. Vale a dire Piero Grasso e la sua sinistra che oggi arriva al fonte battesimale, padrini d'onore Bersani e D'Alema. Dunque sul «nuovo» si potrebbe discutere. Però l'avvicinamento esiste, e non a caso ieri anche sui temi più cari ai laburisti Di Maio ha lanciato un amo e definito possibili terreni d'incontro. «Noi il Jobs Act lo vogliamo abolire. Crediamo che sotto i 15 dipendenti le imprese siano a conduzione familiare, ma per il resto l'art.18 vogliamo ripristinarlo». Ed è chiaro che la questione è una di quelle prioritarie, anzi costitutive, della «Cosa rossa» (o come si chiamerà, presumibilmente Liberi e Uguali).
Si tratterebbe perciò di un primo passo comune per smantellare gran parte delle riforme, o presunte tali, varate nei vituperati mille giorni renziani. Passo che segnerebbe anche un tentativo di riconciliazione con la Cgil e quel mondo sindacale messo a soqquadro dalle promesse di «sovvertimento» lanciate a suo tempo sia da Grillo che dallo stesso Di Maio. Ragion per cui i leader sindacali restano guardinghi e forse persino freddini, per ora. Al punto che Maurizio Landini non s'è voluto sbilanciare sulle sue preferenze tra Di Maio e Berlusconi. «Penso che mai come in questa fase le organizzazioni sindacali devono avere una loro indipendenza e una loro autonomia. Non mi permetto di dare indicazioni di voto a nessuno...». Il problema è semplice: Landini è conscio che molti dei lavoratori iscritti alla Cgil votano da tempo per M5S nonostante le ruggini. È un voto di protesta che impone di riflettere, come fa Landini, «sui problemi delle persone» e non su logiche di schieramento. Ma è anche questo un modo di pensare in un certo qual senso «grillino», cioé oltre i vecchi steccati destra-sinistra.
Così Di Maio, mentre conferma che «resteremo nella Ue, ma deve cambiare», può spingersi su altri bocconi cari alla sinistra, come l'anti-berlusconismo («Abbiamo un nuovo film, Goodbye Berlusconi: sembra che si sia addormentato nel '94 e risvegliato adesso») e lo stop alle grandi opere («assurdo e inutile spendere miliardi per la Tav se non c'è un milioncino per rimettere su i ponti che crollano»). Mondo fluido, e intese che si preannunciano altrettanto liquide.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.