Si fa presto a dire maggioranza. Di accelerazione in accelerazione, di forzatura in forzatura, il premier Matteo Renzi è arrivato in solitudine al traguardo delle riforme. Non da trionfatore. «Le opposizioni che non votano è un problema delle opposizioni, a rammaricarsi debbono essere loro», ha detto il Conducator incassando l'affrettata conclusione del voto sugli articoli di modifica alla Carta. E in serata al Tg1: «Un errore fermarsi, le riforme possiamo farle senza Berlusconi». L'errore del premier è marchiano; il problema in realtà tutto suo.
L'aula era semivuota, l'altra notte, e i voti di maggioranza ondeggiavano tra i 307 e i 310, dunque ben al di sotto della soglia naturale dei 316. E non basta giustificarsi con i rappresentanti del governo in missione. Una legge dichiarata incostituzionale anche dal presidente della Repubblica in carica, quando era membro della Consulta, ha assicurato al Pd una messe di numeri parlamentari che non rispecchiano affatto le forze in campo. A maggior ragione per materie di rilievo supremo, come la revisione della Costituzione. Il dato è fortemente politico: basti rammentare che quando il governo Berlusconi nel novembre 2011 approvò il Rendiconto generale dello Stato con soli 308 voti a favore, l'allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, fu il primo a parlare di «svolta» chiedendo al presidente del Consiglio di rassegnare le dimissioni. Il leader di Forza Italia, in una situazione fortemente condizionata da fattori interni ed esterni, non si nascose dietro un dito: prese atto di non avere più la maggioranza, si recò al Quirinale per un colloquio con il presidente Napolitano e alla fine, «consapevole delle implicazioni del voto odierno», annunciò le proprie dimissioni.
Non occorre ricordare la differenza del contesto: resta il fatto determinante che una maggioranza inferiore ai 315 può essere tollerata in caso di incidenti di percorso su atti normativi di rango ordinario, mai per la legge sovrana di contabilità, men che meno per la modifica straordinaria degli architrave istituzionali. Rispetto alla quale, sottolinea Maurizio Landini (Fiom), la strada maestra sarebbe stata l'Assemblea costituente. Fuori posto, perciò, l'infantile giubilo del premier espresso con il tweet che inviava «un abbraccio a « #gufi e #sorciverdi » (Brunetta rispondeva a tono: « Buuu... Ride bene chi ride ultimo, in Etruria e dintorni »).
Non è questo, un clima costituente. Se ne sono accorti anche nello stesso partito di Renzi, dove pure il terrore (della non conformità) corre sul filo. Se il Pd non cercherà di correre ai ripari e cambiare rotta, avverte Francesco Boccia, nel voto finale di marzo la minoranza pidina non accetterà di votare in un'aula vuota. Gianni Cuperlo vorrebbe il «concorso di tutti, di giorno, in piena luce», per Stefano Fassina «Renzi tira la corda in una direzione che ferisce la nostra Costituzione». Siamo, come si vede, ormai al di fuori della dialettica in seno a un partito, bensì «quasi a un punto zero della democrazia», dice il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. Crinale che sembra dar ragione a quei grillini (Di Battista, Fico) che ieri si appellavano a Mattarella («dimostri di avere la schiena dritta») e proponevano dimissioni in massa delle opposizioni per far cadere un Parlamento «che non rappresenta più nessuno».
Via d'uscita legittima, senza dubbio. Se non corresse il rischio di portarci esattamente nel punto dove il Ganzo fiorentino desiderava condurci. Un mondo senza avversari, nel quale si vince facile. E vince sempre lo stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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