A Milano il giudice sgrida i familiari: "No alla giustizia a qualsiasi costo"

Processo Tosi , dopo l'assoluzione del manager Pesenti bacchettate le parti civili a caccia del colpevole

A Milano il giudice sgrida i familiari: "No alla giustizia a qualsiasi costo"

Milano - È uno schema già visto in molti processi, dalle stragi terroriste a quelli per i morti sul lavoro. Quando arrivano le sentenze di assoluzione, inevitabilmente i familiari delle vittime parlano di giustizia negata: una reazione che viene compresa e rispettata, perché - a prescindere dalle prove raccolte - viene da chi ha perso uno dei propri cari. Ma stavolta a Milano un giudice decide di sollevare il problema, e in una sentenza polemizza col desiderio di cercare un colpevole a tutti i costi.

Il processo è quello, concluso il 30 aprile, per i morti d'amianto alla Franco Tosi, grande e storica fabbrica legnanese. È un tema complicato, l'amianto: la nocività della sostanza, responsabile di una quantità impressionante di morti per mesotelioma pleurico, è accertata; ma individuare con nome e cognome quali dirigenti aziendali portino la responsabilità di non essere intervenuti è spesso difficile, di fronte alla complessità degli organigrammi e ai tempi lunghi in cui l'amianto manifesta i suoi effetti. Così alcuni processi, come il più recente per i morti alla Pirelli, terminano con la condanna; altri, e sono la maggioranza, con le assoluzioni.

Il processo per i morti alla Franco Tosi si è concluso con l'assoluzione di tutti gli imputati, compreso l'imprenditore Gianpiero Pesenti. Ieri, il giudice che ha pronunciato la sentenza, Manuela Cannavale, deposita le motivazioni. E va dritta al problema: assodata la nocività dell'amianto, la questione è «l'individuazione del momento in cui l'induzione della malattia era completata», perché bisogna chiedersi «come un imputato possa essere tenuto a rispondere di un decesso se non è noto, e non potrà mai esserlo, il momento in cui il lavoratore aveva contratto il mesotelioma in modo irreversibile». La risposta che il giudice dà è secca: di fronte alla impossibilità di individuare l'istante in cui l'esposizione è diventata mortale, non si può condannare nessuno. «La tragedia collettiva delle morti da amianto, che purtroppo vedrà il suo picco fra dieci anni, non può e non deve essere risolta sul piano penalistico. L'esigenza di trovare a tutti i costi una o più persone fisiche che debbano rispondere personalmente di numerosi reati di omicidio colposo, esaminata la problematica in modo scevro dalla retorica, non può essere soddisfatta. E francamente il caricare i parenti delle vittime di aspettative che non possono essere soddisfatte non pare nemmeno corretto.

Si fatica a capire quale soddisfazione, impropriamente chiamata esigenza di giustizia, possa trovare una parte lesa di questa drammatica vicenda nel vedere un uomo, perlopiù ottantenne, condannato per una condotta da lui tenuta quantomeno vent'anni fa, che non si può provare sia stata la causa della morte del proprio congiunto, Un giudice deve decidere secondo diritto e non allo scopo di accontentare chi chiede una sentenza pacificatrice dal punto di vista emotivo».

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