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Minniti, il ministro di ferro che ha ingabbiato i violenti

Il titolare del Viminale ha agito in maniera preventiva, sfidando le polemiche. Così ha sconfitto i black bloc

Minniti, il ministro di ferro che ha ingabbiato i violenti

C'è finalmente un ministro, al Viminale, e ieri se ne sono accorti tutti. Roma non è stata messa a ferro e fuoco da no global o black bloc, il vertice europeo non è stato devastato dal temuto attentato terroristico, «cani sciolti» e kamikaze si sono tenuti alla larga, ad antagonisti e facinorosi di qualche centri sociale è stata messa la museruola. Inoffensivi. I 27 capi di Stato e di governo del summit non si sono accorti neppure di una scaramuccia.

«Non sarà ammessa alcuna violenza», aveva promesso il titolare dell'Interno Marco Minniti, alla vigilia delle celebrazioni. E così è stato. Parole d'ordine: «prevenzione» e «controllo del territorio». Ha funzionato, bisogna dirlo. Per tempo, Minniti ha pianificato tutto, agendo già prima che la macchina potenzialmente pericolosa si mettesse in moto. E se n'è infischiato di critiche e polemiche per la sua azione decisa. Ha dimostrato che la competenza per un ruolo del genere serve. E che lui, già sottosegretario alla Difesa nel governo Amato, viceministro all'Interno nel secondo governo Prodi e sottosegretario con delega ai servizi con Letta premier e poi con Renzi, ne ha da vendere.

L'ex pupillo di Massimo D'Alema, criticato velenosamente dal vecchio maestro quando Paolo Gentiloni l'ha voluto al Viminale, s' è preso la sua rivincita.

Per dire, il giorno prima della manifestazione sono stati espulsi 170 estremisti anarchici francesi: fermati a Milano su un treno diretto a Roma e rispediti a casa. Nella capitale sono stati fermati 7 no global con precedenti e di chissà quanti altri non si è ancora saputo. Ieri, diversi pullman sono stati bloccati per i controlli prima di arrivare ai punti di raduno, tutti i partecipanti sono stati filtrati attraverso i 40 check point e filmati anche dalle 100 telecamere in più installate per l'occasione. Erano tutti a viso scoperto, per il divieto (fatto rispettare) di indossare caschi, passamontagna e cappucci. Sopra Roma i cieli erano chiusi, le due aree off limits presidiate, palazzi del potere e monumenti protetti.

I 5mila uomini delle forze dell'ordine schierati nelle strade di Roma, per controllare, contenere, ingabbiare i 4 cortei e i 2 sit in pro e contro l'Europa, erano gli stessi presenti in tante altre occasioni. Stavolta, però, avevano alle spalle una regia e ordini precisi. Hanno seguito soprattutto la tattica di intervenire al primo segnale sospetto e di dividere chi scalpitava troppo dagli altri, com'è successo ai piedi dell'Aventino nel pomeriggio.

Il livello d'allerta era al massimo, dopo l'attacco di mercoledì a Londra, ma la task force permanente attivata dal Viminale per tutta la giornata ha fatto il suo dovere. E nell'ombra hanno fatto il loro i servizi, insieme ad ufficiali di collegamento di Scotland Yard. Le forze dell'ordine, aveva spiegato Minniti, «dovranno preoccuparsi del controllo del territorio con presidi forti lungo le strade. Il principio è quello di poter manifestare le proprie opinioni, con un limite: la violenza».

Alla fine, non si è visto nulla di lontanamente paragonabile a certe scene documentate sotto la gestione Alfano, dalla devastazione del centro della capitale dei tifosi olandesi venuti per la partita Roma-Feyenoord nel febbraio 2015 alla guerriglia urbana di aprile dello stesso anno all'inaugurazione dell'Expo a Milano. «La prossima volta si vota Minniti anziché Renzi», ha scherzato l'ex premier venerdì riferendosi a tutt'altro. Stavolta, il voto è alto.

Poi, chissà.

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