Tante polemiche per il rientro in Italia del corpo di Vittorio Emanuele III, un re che ebbe la colpa di non sapere fermare l'ascesa della dittatura fascista. E un re che, quando dal fascismo si staccò, ebbe la colpa di non riuscire in nessun modo a prevenire la reazione tedesca. Eppure il nostro Paese, in altri casi, non si è fatto mancare giganteschi rituali di lutto collettivo, per tiranni ben peggiori, e che per altro italiani non erano.
Basta pensare a come venne accolta la morte di Stalin, nel 1953. L'occhiello della prima pagina, bordata di nero, dell'Unità di venerdì 6 marzo 1953 così recitava: «Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e il progresso dell'umanità». Venne anche organizzato un subitaneo lutto collettivo, imposto o no che fosse. Ecco come lo raccontava un altro degli organi di stampa più letti della sinistra dell'epoca, Rinascita: «La luttuosa notizia della morte del Capo amato dei lavoratori ha trovato la prima eco dolorosa nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro di tutta Italia. In centinaia e centinaia di aziende, dai grandi complessi alle piccole officine, in ogni provincia, il lavoro è stato spontaneamente sospeso per qualche minuto. Le maestranze si sono raccolte in assemblea, hanno commemorato la figura e l'opera di Giuseppe Stalin; negli stabilimenti, nei reparti, nei cortili sono apparse le prime bandiere abbrunate, i primi ritratti, i primi registri per la raccolta delle firme».
E fu solo l'inizio. In onore del «Grande combattente della pace» le manifestazioni si moltiplicarono rapidamente: raccolte di firme da spedire in Urss, lezioni sospese in moltissime scuole, intere città, come le rossissime Livorno e Cerignola, vennero parate a lutto. Si arrivò anche a iniziative più bizzarre: ad Ancona si decise la diffusione di ventimila copie del discorso di Stalin al XIX congresso del Pcus; a Sbarre (Reggio Calabria) venne costituito, nel nome di Stalin, un nuovo reparto di Pionieri (l'organizzazione giovanile comunista). E qualcuno si precipitò verso il territorio sovietico più vicino e reperibile. Così di nuovo su Rinascita: «Gruppi di cittadini si recano a bordo delle navi sovietiche ancorate nei porti italiani, a recare agli ufficiali e ai marinai dell'Urss l'espressione del cordoglio e della solidarietà del nostro popolo».
Non si fece mancare nulla nemmeno il mondo politico: sia alla Camera sia al Senato, la seduta fu sospesa per un'ora in segno di lutto. Anche non comunisti, come il socialista Pietro Nenni, usarono toni a dir poco apologetici: «Onorevoli colleghi, nessuno fra i reggitori di popoli ha lasciato dietro di sé, morendo, il vuoto che ha lasciato Giuseppe Stalin».
Non bastando l'apologia collettiva partì la caccia ai pochi che ebbero il coraggio di dire, se non la verità sull'ideatore delle purghe più sanguinarie, almeno di correggere l'enormità di alcune di quelle bugie.
Alcide De Gasperi si limitò a puntualizzare che: «Da vivo, il dittatore non mostrò per il nostro Paese né comprensione né considerazione...». Venne sottoposto a un vero e proprio linciaggio morale.
Certo, si può ovviamente dire che nel 1953 non tutta la verità sul sistema concentrazionario era stata rivelata. L'Italia però non si fece mancare una nutrita delegazione ai funerali di Tito nel 1980.
E anche in quel caso, seppure in tono minore, partì l'elogio collettivo (con poche eccezioni).Eppure sulle foibe non c'era molto da scoprire. Evidentemente su un re che ebbe molte colpe, ma anche qualche merito, come la condotta specchiata durante la prima guerra mondiale, la tolleranza è minore.
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