Da Trandum (Norvegia)
Il soldato in divisa si avvicina alla fila di profughi tremanti, strappa il passaporto dalle mani a una ragazzina terrorizzata e le urla in faccia: «Nu-me-ro-di-do-cu-men-to!». Quella sbianca e balbetta qualche cifra prima di venire interrotta. «Sbagliato! A terra, dieci flessioni subito!».
Pare un centro per migranti, ma è una gigantesca messinscena per educare i giovani norvegesi a «vivere come rifugiati». Per ventiquattr'ore, nel campo avventura dell'associazione «Refugee Norge», fondata nel 2004 dall'assistente sociale Kenneth Johansen ed ora forte di quattrocento volontari. Centinaia di giovani devono recitare un copione, dietro pagamento di 83 euro a testa. Per un giorno, si gioca a fare i finti migranti.
Nei boschi intorno all'aeroporto di Oslo seguiamo la famiglia Abboud, in fuga dal Darfur. Prima tre ore d'attesa in ambasciata, interrogatori snervanti, prove fisiche e perquisizione dei bagagli: ai partecipanti è vietato portare orologi, cellulari e qualsiasi genere di cibo. Poi nove chilometri a piedi nella foresta per arrivare in Yemen. I militari, fra urla e minacce, bloccano i ragazzi sul ciglio della strada, passaporto sopra la testa e gli occhi bassi. Trascorre un'ora prima che, a gruppi, possano passare il finto confine. I finti profughi, già provati dalla fame e dal freddo, vengono interrogati e umiliati: chi non sa rispondere alle domande è costretto a fare le flessioni a terra con lo zaino sulle spalle. Finita l'ordalia, sono accolti nel campo delle Nazioni Unite. Qui ricevono del riso, scaduto (sempre per finta) nel 1999. I ragazzi, famelici, lo divorano senza pensarci due volte.
Ma il riposo dura poco: l'urlo di una sirena interrompe il sonno e strappa tutti al tepore del sacco a pelo. Inizia una folle corsa nel buio della foresta. Impossibile vedere qualcosa, il freddo gela il viso mentre si fugge coi soldati alle calcagna. Dopo due ore di marcia i ragazzi arrivano in Norvegia, dove trovano un riparo. Qui, coccolati dai gentili poliziotti norvegesi, possono dormire e fare un'abbondante colazione. Prima di lasciare il campo, però, tutti davanti a un grande schermo dove i bimbi africani muoiono di stenti: «Attenzione ricorda Johansen da un palco Quello a cui avete preso parte è solo un gioco. I migranti veri possono impiegare anche diversi anni».
E per i partecipanti c'è una sorpresa: su trecento finti profughi, solo in tre ottengono l'asilo politico. La metafora è chiara: per i profughi veri è durissima. Quest'inverno sono oltre cinquemila i giovani norvegesi che hanno preso parte al campo organizzato da «Refugee Norge», mentre altri vengono intruppati in giochi analoghi organizzati dalla Croce Rossa. Ma non è solo Johansen a voler sensibilizzare i giovani norvegesi.
Pochi giorni fa, il ministro dell'immigrazione norvegese, Sylvi Listhaug, si è tuffata nel mare di Lesbo per «capire cosa provano gli immigrati». Tentativo di immedesimazione poco riuscito, con il fantasioso ministro imbacuccato in uno scafandro galleggiante che la maggior parte de migranti non si sogna nemmeno.
Le politiche della Norvegia sull'immigrazione sono assai rigide: nel corso del 2015 il regno scandinavo ha accolto il triplo dei richiedenti asilo dell'anno precedenti, ma il governo si è detto pronto a pagare mille euro a chi lascia il Paese
La Norvegia sembra insomma prepararsi a puntare sull'accoglienza selettiva: accettare pochi migranti ma «buoni». Addestrando i propri giovani a viverne l'esperienza. Con un campanello al collo, per scendere dalla giostra quando si è troppo stanchi.
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