Ogni anno in media agli italiani è richiesto il pagamento di circa 13,5 miliardi di imposte e di tasse indebite. È quanto emerge dalle dichiarazioni rese dal direttore generale dell'Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, quando nel 2016 era ancora a capo della «vecchia» Equitalia. Al vecchio ente di riscossione era infatti stato affidato dal 2000 al 2015 un carico di 216,5 miliardi di tributi non dovuti.
Perché partire dai tributi iscritti a ruolo per effettuare questa analisi? Perché si tratta dell'unica «traccia» lasciata dagli errori del fisco, inteso anche a livello locale, nei confronti dei cittadini. I dati ci dicono che la maggior parte dell'indebito (175 miliardi; in media 11 miliardi all'anno) proviene dai ruoli dell'Agenzia delle entrate. Occorre, infine, ricordare che le commissioni tributarie provinciali e regionali nel 2016 hanno dato ragione ai contribuenti contro l'agenzia per un ammontare complessivo di circa 7,3 miliardi di euro.
Dunque è proprio lo Stato che ci chiede di pagare più Irpef, Iva e Ires rispetto al dovuto. Un'ulteriore conferma proviene dalle statistiche del Dipartimento delle Finanze relative all'imposta sul valore aggiunto. A fronte di 107 miliardi di versamenti si sono chiesti 35 miliardi di crediti da portare in compensazione cui si sommano altri 9 miliardi di rimborsi richiesti. Insomma, l'erario per l'Iva come per altri tributi per fare cassa pretende sempre un po' di più.
Tornando al contenzioso tributario si evidenzia inoltre come nel secondo trimestre 2017 il tributo maggiormente presente nelle contestazioni sia stato l'Irpef, presente in 17.194 atti (19,5%), seguito proprio dalla Tarsu (l'attuale Tari) con 13.373 (15,2%) e dall'Iva con 11.793 atti (13,4%). Non è un caso. Si tratta delle imposte che scattano «automaticamente». L'Irpef si paga con le trattenute in busta paga o con l'applicazione delle aliquote sul reddito per gli autonomi. La Tari è un bollettino che arriva a casa con l'importo calcolato dall'Ufficio tributi comunale. L'Iva, infine, è governata da un regime da «Grande Fratello fiscale». Gli studi di settore (progressivamente sostenuti dagli indici sintetici di affidabilità) si basano sul reddito presunto dell'azienda o del professionista. Poi c'è lo spesometro che si fonda sulle comunicazioni periodiche delle fatture. Infine l'Agenzia delle entrate ha a disposizione il ricco database del Sia (sistema interscambio dati) per verificare se l'incrocio dei dati disponibili sia congruo con le dichiarazioni del contribuente.
Questo «Grande Fratello» è solo l'altra faccia del «fisco dal volto amico» di cui l'attuale capo delle Entrate Ruffini ha spesso parlato nelle sue apparizioni pubbliche, l'ultima l'intervista a Repubblica di ieri con la quale ha annunciato la progressiva
sparizione del 730. In questo mondo immaginario è il contribuente stesso che decide di pagare un po' di più o di adeguarsi alle pretese dell'erario per evitare ritorsioni sotto forma di accertamenti, controlli, cartelle.
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