Nella cupa notte della depressione di «sovranisti», «no-euristi» e grillini, rintanati a leccarsi le ferite della resa alle regole europee, piomba l'avvertimento di Giancarlo Giorgetti: «Il nostro impegno dura nella misura in cui sarà possibile realizzare il contratto di governo: quando non sarà possibile finirà, ma allora la parola torni al popolo».
Il potente sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio rompe un tabù e dice, per la prima volta a voce alta, quello su cui da tempo si ragiona nel Palazzo: visto che la sfida all'Europa è diventata un boomerang, la manovra sarà molto probabilmente un fallimento e la recessione è alle porte, meglio andare al voto. Presto, prima che gli elettori si accorgano che non ci saranno né il reddito di cittadinanza né pensioni baby a pioggia, prima che la crisi si mangi i risparmi degli italiani, la disoccupazione lieviti ancora e - soprattutto - prima di dover fare un'altra, impossibile manovra alla fine del prossimo anno.
Giorgetti fa anche capire che le pretese dell'alleato pentastellato, a cominciare dal reddito di cittadinanza, sono assai indigeste a lui, al suo partito e a quella parte del nord produttivo cui la Lega vorrebbe dare rappresentanza: «Può piacere o no, ma M5s ha vinto al Sud perché gli elettori vogliono il reddito di cittadinanza». Non così al nord: «Nelle mie zone» quella promessa «ha orientato pochissimi elettori», e ora realizzarla crea «il pericolo che si alimenti il lavoro nero». E conclude: Magari quella è l'Italia che non ci piace ma con cui dobbiamo confrontarci e governare». Ma fino a quando?
La casa giallo-verde scricchiola e ondeggia, e ad avere il mal di mare sono soprattutto quei personaggi che per mesi si sono esibiti in tutte le tv del regno a rodomonteggiare sulla guerra santa all'Europa, a sventolare come una bandiera quel 2,4 del deficit poi ridicolmente precipitato al 2,04 e ad annunciare che l'uscita dall'euro era ormai alle porte. Ora non sanno cosa dire: Alberto Bagnai, presidente leghista della commissione Finanze e alfiere noeurista ha annunciato mercoledì su Twitter che «Palazzo Chigi smentisce voci sulla modifica della percentuale del deficit al 2%». Poi ha corretto stupefatto: «Pare che le cose stiano andando in modo diverso». Infine, mentre la modifica si compiva, è sparito per 22 ore. «Un record storico. Ma mi dicono sia stato avvistato su un autobus diretto in Ungheria», lo irride perfido l'economista Andrea Presbiterio. Il compagno d'arme Claudio Borghi invece non ha resistito al richiamo della tv, ed è andato dagli amici di La7 a spiegare che, fosse stato lui a trattare con la Ue, altro che 2,04: «Uscivamo col 4,2%!». Purtroppo nessuno ce lo ha mandato, ed è andata così. Peccato che i fan di Borghi, Bagnai o di quel tal Antonio Rinaldi che aspira alla poltrona Consob, non l'abbiano presa bene, e li ricoprano di contumelie sui social per le promesse non mantenute o perché, come sintetizza più uno di loro, «non contate proprio un c...». Del ministro Paolo Savona, padre nobile della compagnia, si hanno poche notizie: si sarà chiuso in casa col celebre cigno nero.
Il senatore grillino Lannutti esplode: «Sono furioso per questo immotivato cedimento». Il M5s tenta disperatamente di intortare i suoi piccoli fan con illusioni ottiche, e pubblica post di «vittoria» con il 2,04 in cui lo zero sparisce per magia e resta la cifra annunciata da Gigino sul fatidico balcone.
Qualcuno ci casca, i più la prendono male: «Peracottari» è l'epiteto più lieve. Ma Di Maio è troppo impegnato a replicare a Giorgetti. «A noi - fa sapere - l'Italia piace tutta e con il reddito non c'è alcun rischio di favorire il lavoro nero».
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