C'è un dolore che, se non si può dire, allora occorre scriverlo, raccontarlo e spiegarlo. Per non impazzire e per testimoniarlo. Un padre che perde il suo bambino, una madre che un giorno qualunque prende il figlio e l'aereo con la promessa di tornare in tempo per la scuola. E invece addio. Addio tutto. Un bambino che resta intrappolato nelle maglie giuridiche e burocratiche di un Paese lontano, la donna che dalla Russia minaccia l'uomo: guai a riavvicinarsi a noi.
La disperazione e l'impossibilità del fare qualsiasi mossa se non quella di arretrare; un passo indietro per l'incolumità e il bene del figlio. Restare ad aspettare, sperare e pazientare è quasi disumano. Il tempo che passa, il tuo piccolo che diventa ogni giorno un po' più grande, un po' più estraneo perché non sai niente. Se gli piace la scuola, i suoi sogni, le sue paure. «Aveva nove anni quando l'ho visto per l'ultima volta. Oggi compirà sedici anni. Nel frattempo è diventato un ragazzo». Stefano Aloe è il padre che aspetta paziente e costante il ritorno di questo figlio che gli è stato strappato. La speranza e l'attesa dei primi tempi, i mesi che passano invano. La mancanza che diventa straziante. E allora che fare? La disperazione e la rabbia no. Questo mai. Essere forte e non dubitare, questo professore di Verona, dove insegna letteratura russa all'università, lo fa anche per il suo ragazzo. «Io lo aspetto, a un certo punto sentirà il bisogno di sapere chi è, da dove viene, e allora mi troverà». E dunque eccola l'idea, salvifica. Scrivere lettere da affidare allo spazio immenso della rete. Messaggi nella bottiglia il professor Aloe li lascia galleggiare sul web. Scrive, scrive scrive lettere al figlio. In italiano, in russo. Lascia tracce di sé, del suo rapporto padre-figlio. Raccoglie pensieri e li mette al sicuro sui social. «Convinto che un giorno lui li troverà e allora capirà». Il bambino rimasto solo avrà la certezza allora che quel padre non ha mai smesso di volerlo, di cercarlo, ma lo ha protetto e amato, anche se lontanissimo. Ne è uscito anche un libro, Diario di paternità, Lemma Press editore. Un libro intriso di una nostalgia che si sforza di essere vincente, di non cadere mai nel tragico. «So che verrà un giorno in cui sarà ristabilita giustizia e noi saremo di nuovo insieme». E lui vuole essere pronto. I ricordi di quando erano vicini, ma anche l'invenzione di come - ormai adolescente - può essere diventato. «E io di te, da quel momento in cui nel gelo moscovita ti accompagnavo con gli occhi, finché tu non scomparisti in fondo all'androne lurido e scuro del palazzo, di te da quel momento provo una nostalgia incessante, tranquilla, silenziosa».
Un testo che verrà tradotto anche in russo perché «non ho scritto un libro per rivalsa, ma solo perché spero di arrivare a mio figlio anche così». Ci sono ricordi vivissimi, come l'ultimo giorno, l'ultimo abbraccio che ha l'intensità di due naufraghi che sanno che stanno per lasciarsi. «Allora ci siamo abbracciati a lungo. Così forte e tu mi accarezzavi di continuo la testa standomi seduto sulle ginocchia». Sanno che partiranno per due strade diverse. Il padre è ancora lì, a rincuorare il figlio, e gli dice di non temere, di stare tranquillo. Le lacrime e la paura, il sentire che qualcosa di brutto sta per accadere. Non si sbagliano. Non si vedranno più.
Il bambino strappato al padre, alla sua vita di Verona, ai compagni di classe, ai nonni. «Per i tuoi compleanni non ho regali, ma ti posso regalare la mia devozione». Un giorno passare davanti a una libreria di Mosca per caso e leggere il nome di quel padre perso. E sarebbe un sogno.
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