Lidia Solano Herrera è cubana e vive da dieci anni in Italia. Suo figlio Ismail Davud, nato a Belluno nel 2011, è stato portato a sua insaputa in Siria dal marito che è morto ad Aleppo in nome della guerra santa. In questa intervista esclusiva al Giornale racconta il dolore di una madre, che vuole indietro il suo piccolo «adottato» dal Califfato.
Vuole lanciare un appello per il piccolo Ismail?
«Vorrei che tornasse fra le mie braccia. Nel nome di Allah restituitemi mio figlio. Dicono di essere veri credenti, ma non è giusto quello che fanno, non è giusto che un bambino venga strappato alla madre. Che si mettano la mano sul cuore e pensino a me, una mamma che cerca disperatamente suo figlio. Anche se mio marito gli ha detto di crescerlo io sono la madre e amo Ismail come tutte le mamme del mondo».
Suo marito è morto in gennaio combattendo ad Aleppo. Lei ha idea dove si trovi e chi tenga suo figlio?
«Non posso dirlo. Ho paura per la sua sorte. Si trova in Siria e vive con delle donne che hanno già dei figli. Prima di andare a combattere mio marito lo ha consegnato a loro».
Non ha mai avuto contatti con chi tiene suo figlio?
«Mai. Non ho più visto una sua foto, un video. Non mi hanno mai fatto parlare al telefono con lui. Niente di niente. L'ultima volta l'ho visto l'11 dicembre a Ponte delle Alpi dove ancora abito. Mio marito mi aveva detto che portava Ismail a trovare il nonno in Bosnia. Non avevo idea che volesse partire per la Siria con nostro figlio».
E poi cosa è accaduto?
«Dopo qualche giorno una zia dalla Bosnia mi ha avvisato che mio marito era andato a trovare il suo amico Munafir (Karamaleski, che ancora combatte in Siria fra le fila del Califfato ed è indagato dalla procura di Venezia, ndr ) in Macedonia. La zia voleva tenere Davud, ma mio marito si è rifiutato. Poi ho perso il contatto con lui ed il bambino».
Quando ha saputo che suo marito aveva deciso di andare a combattere in Siria con lo Stato islamico?
«L'8 gennaio da mia suocera che vive in Germania. Mi ha mandato un sms in inglese informandomi che era morto. Poi mi ha raccontato che Ismar l'aveva chiamata al telefono verso il 20 dicembre per dirle che stava andando in Siria e che non sarebbe più tornato indietro. E con lui aveva portato il piccolo Ismail. Per me è stato un fulmine a ciel sereno».
Dall'inchiesta sembra che suo figlio sia nelle mani di due donne bosniache...
«In seguito mia suocera è riuscita a contattare le donne che tengono Ismail. Sono le mogli dei combattenti islamici e hanno sostenuto che questa era la volontà di mio marito. Dicono che il bambino è vivo e sta bene, ma sarà vero? Solo mia suocera l'ha visto e sentito via internet, ma alcuni mesi fa, in maggio».
Quando è cominciata la deriva integralista di suo marito?
«Ci siamo conosciuti nel 2008 a Ponte delle Alpi. Lui faceva l'imbianchino, era un persona tranquilla, normale. Non so proprio cosa gli sia accaduto. Attorno al 2010 è cominciato il cambiamento».
Si sarà chiesta qual è la molla che lo ha spinto a partire per la guerra santa portandosi dietro vostro figlio?
«Non lo so. Mi ricordo che era molto colpito dai massacri in Siria. Guardava in tv i servizi sul conflitto. Mi parlava delle donne e dei bambini uccisi, ma sembrava tutto normale. Non avrei mai immaginato che sarebbe andato a morire ad Aleppo».
Perché si è convertita?
«Per amore. Mio marito andava alla moschea, ma tornava sempre a casa e si comportava normalmente. Non mi ha mai parlato dei predicatori che lo avrebbero convinto a partire, come dicono gli inquirenti. Se l'avessi immaginato non avrei permesso che portasse via il piccolo».
Teme che suo figlio possa diventare un combattente dello Stato islamico?
«Questa è la mia paura.
Mio figlio può crescere nell'islam, ma ho il terrore che diventi un soldato bambino in nome della jihad. La famiglia di mio marito in Germania sta cercando di convincerli a restituire il piccolo, ma è passato quasi un anno. Qualcuno mi aiuti».
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