Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha ripetuto il concetto in tutte le sue uscite pubbliche: la prossima legge di Bilancio cercherà di detassare il più possibile gli investimenti delle imprese, aiutando chi non tiene i profitti per sé. Si tratta di una svolta positiva, ma per definirla completamente come tale bisognerà aspettare la versione definitiva della manovra. In primo luogo perché il diavolo si annida sempre nei dettagli. In secondo luogo perché l'andamento stagnante dell'economia lascia molti punti interrogativi in sospeso sulle misure annunciate che potrebbero essere non totalmente coperte dal punto di vista finanziario.
Il perno di questa strategia, illustrata di recente alle pmi di Rete Imprese Italia, si fonda sulla cosiddetta flat tax al 24 per cento. Da una parte le imprese più grandi godranno di un taglio dell'Ires dal 27,5 al 24 per cento, mentre le più piccole (così come i lavoratori autonomi) pagheranno la stessa aliquota se decideranno di lasciare i redditi in azienda. Il regime, come spiegato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini, sarà opzionale. Coloro che registrano fatturati bassi potrebbero, infatti, avere più convenienza a restare nel vecchio regime Irpef in quanto tra deduzioni e detrazioni potrebbero spuntare un'aliquota marginale più bassa del 24 per cento. In ogni caso, per i 2,8 milioni di imprese individuali e società di persone (società a nome collettivo e società in accomandita semplice) le cose sono destinate a cambiare. Secondo i calcoli della Cna, almeno 500mila imprese potrebbero aderire al nuovo regime.
L'altra novità sostanziale è l'assoggettamento al «criterio di cassa». Le piccole imprese e gli autonomi pagheranno le tasse in base a quanto fatturato e non in base a quanto il fisco presume che si sia guadagnato. Un'innovazione che interessa l'87% di questo tipo di aziende. Si potranno dormire sonni tranquilli? La risposta non può essere affermativa. La trasformazione degli studi di settore in «pagelle» sull'affidabilità del contribuente implica che chi otterrà voti bassi continuerà a essere nel mirino dell'Agenzia delle Entrate che verificherà di volta in volta l'adeguatezza tra dichiarazioni presentate e le banche dati di cui dispone.
Ovviamente non si può dare tutto per scontato. Il taglio Ires costa 3 miliardi, mentre a più di 500 milioni ammontano le minori entrate ascrivibili al nuovo regime Iri. La sostenibilità finanziaria dell'impianto, come detto, è di là dal considerarsi acquisita. Soprattutto se si aggiungono a questo quadro alcuni impegni presi dal governo nell'ambito di «Industria 4.0» come il super-ammortamento al 140% per gli acquisti di beni strumentali (che diventa «iper» al 250% per gli investimenti in tecnologie) o come il bonus promesso ad albergatori e ristoratori che ristrutturano e ampliano l'esercizio. Se si vanno a sommare tutte queste voci aggiungendo anche la promessa detassazione del salario di produttività (1,3 miliardi per il periodo 2017-2020), il rifinanziamento del Fondo di garanzia (1,3 miliardi) e il taglio di 2 punti delle aliquote contributive delle partite Iva non ordinistiche (i cosiddetti freelance), si sorpassano i 6 miliardi di euro, una cifra non facile da recuperare.
Non bisogna poi trascurare come spesso il legislatore incorra in errori che
costano cari ai contribuenti. A volte basta una virgola per cambiare il senso di un testo di legge. Oppure si assiste a novità legislative assolute come la proroga di termini per le agevolazioni a mezzo comunicato stampa.
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