A lla vigilia dell'Ok Corral in Direzione, la minoranza del Pd è in ebollizione.
C'è Pier Luigi Bersani che chiede al premier di fare «gioco di squadra» e invoca «chiarezza» sulle risorse che la legge di stabilità stanzierà per gli ammortizzatori sociali. C'è Pippo Civati che intima a Renzi di evitare un «confronto in stile western» in Direzione. C'è Stefano Fassina che afferma che «il Parlamento non può votare deleghe in bianco al governo», e in stile Repubblica verga dieci domande dieci al presidente del Consiglio sui contenuti del Jobs Act, e quella centrale è ovviamente sull'articolo 18: «Si elimina la possibilità di reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, o tale tutela entra in vigore dopo un periodo di tempo». C'è la leader Cgil Susanna Camusso che minaccia (ma solo in caso il governo agisca per decreto, precisa) scioperi generali. Il clima, nelle dichiarazioni pubbliche, è da guerra dei mondi. Nelle riflessioni meno stentoree, però, c'è la sempre più diffusa consapevolezza che il premier non è disposto a fare concessioni, e che la sinistra Pd si avvia ad una sonora sconfitta in Direzione. Poi la palla passerà ai gruppi parlamentari, dove gli equilibri numerici sono diversi, ma il presidente Pd Matteo Orfini ricorda che fu proprio Bersani, alla vigilia delle elezioni 2013, a far firmare ai parlamentari l'impegno a rispettare le decisioni di maggioranza. «Sarebbe curioso che proprio lui non lo rispettasse, dopo averci spiegato per un anno che quella norma serviva a fare di noi un soggetto politico e non uno spazio politico», dice al Manifesto .
Le richieste concrete della minoranza sono ogni giorno più al ribasso: il ministro Maurizio Martina, bersaniano, propone di sospendere l'articolo 18 per sei anni (si era partiti da tre), il pasdaran Alfredo D'Attorre chiede un incontro preliminare per cercare un'intesa tra la minoranza e Renzi, «o un suo delegato». Chiosa sarcastico un altro frondista: «Così per sfregio Renzi manda Roberto Speranza ad incontrarci», ossia il capogruppo del Pd che è sì formalmente di area bersaniana, ma gioca col segretario.
L'unica mediazione sul tappeto è quella proposta al premier dal governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, e autorizzata via sms da Renzi con un «mi va bene», e si limita a sancire che il reintegro può essere deciso dal giudice solo nel caso di licenziamenti discriminatori per motivi che violano «diritti civili e politici». E siccome nessuno aveva mai messo in discussione quella fattispecie, si tratterebbe di un contentino davvero simbolico. D'altronde lo stesso premier ai suoi ripete che la partita è chiara: «O c'è il reintegro, o non c'è. Dei compromessi pasticciati non mi frega nulla». Stavolta è deciso a non lasciare alcuno spazio al potere di veto che un pezzo del suo partito vorrebbe esercitare sul governo, e la questione Jobs Act è solo il primo banco di prova di altri e ancor più difficili scontri futuri, dalla riforma radicale della Pubblica amministrazione alla elezione del prossimo capo dello Stato. Scontri che potrebbero lacerare il Pd ben più a fondo, fino a far materializzare quel rischio scissione che ora nessuno prende sul serio tranne forse Civati, che ogni tanto la minaccia e che si fa vedere a ogni summit della sinistra extra-Pd (ieri sera era a Reggio Emilia alla festa di «Essere comunisti», corrente cossuttiana del Prc, per dire). Certo, un pezzo di ex Ds non manca di ricordare che sono sempre loro i titolari di quel che resta del patrimonio post Pci (e dei suoi debiti, ricorda sempre l'ex tesoriere Ugo Sposetti). Ma per ora è solo una chiacchiera da bar. «Il film è ancora molto lungo», ragiona Miguel Gotor, promotore bersaniano degli emendamenti al Jobs Act in Senato, che voterà «comunque», annuncia.
«Renzi, come dimostra l'operazione articolo 18, punta ad un Pd sempre più in grado di prendere voti indifferentemente a destra e a sinistra. E a molti di noi non interessa un partito che vince sì, ma con voti e proposte di destra».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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