“In Germania ci sono 8.500 persone in galera per aver raccontato bugie al fisco. In Italia credo non ce ne sia nessuna. Ecco qual è il problema delle pensioni da noi…”. Il professor Alberto Brambilla sembra unire cose lontanissime tra loro, ma non è così. Esperto di previdenza, già sottosegretario al Welfare con Berlusconi premier, con il suo Itinerari Previdenziali da dieci anni rappresenta un pensatoio che offre cifre e progetti sul cantiere eterno della politica nazionale.
Professore, perché parla di chi truffa il fisco e lo Stato?
“In Italia ci sono 16 milioni e 300mila pensionati. Oltre la metà riceve prestazioni coperte in tutto o in parte dalla fiscalità generale, cioè da tutti noi. Un mare magnum di 3.700.000 prestazioni assistenziali, 3 milioni e mezzo di prestazioni al minimo, un milione di maggiorazioni sociali. Oltre a queste categorie, ci sono 900mila pensioni di invalidità civile”.
Quindi i pensionati che versano regolarmente i contributi per poi percepire una pensione sono una minoranza?
“Sono meno della metà. Poi il 25% versa meno di quello che poi percepisce e un altro 25% non versa nulla. È come se una colonna di carri armati lunga 20 chilometri attraversasse l’Italia e nessuno, governo in testa, se ne accorgesse. I dati che ho indicato segnalano che la metà dei pensionati italiani non sono riusciti in 66 anni di vita a mettere insieme tra i 15 e i 16 anni di onesta contribuzione, da 1.200 euro al mese tipo. Se tutte queste persone non percepiscono alcun reddito, l’Italia non è un Paese da G7, ma da America Latina. Invece restiamo nel G7, vuol dire che qualcuno fa il furbo. Vent’anni fa l’allora presidente dell’Inps Gianni Billia con un clic di computer riusciva a sapere tutto di ogni singolo cittadino. Basta incrociare i dati”.
Non crede che con la crisi economica di questi anni ci siano 8.400.000 pensionati che se la passano male?
“Tra costoro ci saranno sicuramente persone sfortunate, ci mancherebbe! Ma la media Ocse dei Paesi industrializzati parla dell’8% della popolazione. In Italia siamo intorno al 15%. Siamo molto sfortunati evidentemente…”
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha promesso che aumenterà l’importo delle pensioni basse. Che significa?
“Credo si riferisca a coloro che percepiscono i 502 euro al mese di pensione minima o i 448 euro al mese di assegno sociale. Se nelle intenzioni di Renzi ci fosse la cifra magica di 80 euro per tutti coloro che percepiscono la minima, sono 960 euro all’anno, cioè all’incirca 6 miliardi e mezzo di euro di spesa. Vuol dire che una parte della finanziaria va destinata a questi altri 80 euro”.
Questi propositi del presidente del Consiglio sono mosse elettorali?
“Nessuno può vivere dignitosamente in una grande città italiana con 500 euro al mese. Il problema è reale. Il fatto è che in Italia c’è una spesa enorme per pensioni e assistenza sociale, nel 2014 rispettivamente 173 miliardi e 93 miliardi. E ricordo che per legge le maggiorazioni di prestazioni sociali sono esentasse. Oltre a ciò c’è lo spaventoso debito pubblico, circa 2mila miliardi e 200 milioni di euro”.
Questi due colossi cosa implicano, professore?
“Se lo Stato ha un tesoretto di soldi da investire, che so io, mettiamo 3 miliardi, sarebbe irresponsabile investirli per le pensioni minime. In un Paese con 3 milioni di disoccupati, meglio cercare di aumentare l’occupazione, perché per mantenere in piedi il sistema pensionistico il rapporto dev’essere 1,55 lavoratori per ogni pensionato. In Italia ora siamo a 1,36 occupati per ogni pensionato. Se non c’è chi versa i contributi, non ci saranno soldi per pagare le pensioni”.
Facciamo delle ipotesi. Le parole di Renzi diventano legge, aumenta l’importo delle pensioni minime. Cosa accade in pratica?
“Una pensione di 502 euro al mese diventa di 582 euro. Ricordo che questi 80 euro sono esentasse per legge. Un artigiano con una carriera sfortunata che prende 800 euro lordi di pensione paga il 20% circa di tasse, quindi percepirà al netto 640 euro. Poi c’è un altro pensionato che prende 502 euro, se ne trova 582 puliti, quasi come l’artigiano che ha lavorato per tutta una vita. Per un giovane artigiano diventa quasi sconveniente versare i contributi e, in definitiva, pagare le tasse”.
Quindi quale sarebbe l’intervento da fare?
“Soldi a pioggia non servono, anzi sono controproducenti. Bisogna verificare prima se tutti coloro che beneficiano di una pensione sociale o di un’altra prestazione assistenziale ne hanno diritto. Solo così si possono evitare situazioni paradossali, come per esempio il fatto che molti affiliati a organizzazioni criminali siano destinatari di questo tipo di prestazioni. O, altro paradosso, che si verifichino incroci tra previdenza e assistenza che rendano conveniente non versare i contributi. I soldi pubblici devono andare ai cittadini realmente bisognosi. Anche perché, come abbiamo visto, di soldi pubblici in cassa ce ne sono sempre di meno”.
Passiamo alla seconda affermazione del presidente del Consiglio: la flessibilità in uscita. Che significa materialmente?
“La legge Monti-Fornero, nei principi ispiratori non sbagliata, ha compiuto l’errore- forse sotto la pressione dell’Unione Europea- di agganciare l’età contributiva all’aspettativa di vita, dopo aver abolito le pensioni d’anzianità e le agevolazioni per i lavoratori precoci. In questo modo si va in pensione più tardi e versando più contributi. Ad ogni modo, oggi in Italia gli uomini vanno in pensione a 66 anni e 7 mesi, le donne a 65 anni e 7 mesi. Mentre l’età contributiva per conseguire la pensione è 42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne fino al 1° gennaio 2019. Dopo questa data ci vorranno 43 anni e 2 mesi per gli uomini e 42 anni e 2 mesi per le donne. Siamo alla follia!”.
Come fermare questa follia?
“Bisogna riportare l’anzianità contributiva a 41 anni per tutti, in primis ai lavoratori precoci che hanno iniziato a lavorare prima di compiere 20 anni e non hanno certo fatto professioni intellettuali. E nemmeno i politici”.
Cosa intende quindi il presidente del Consiglio quando parla di flessibilità in uscita?
“Con alcuni sistemi di calcolo attuariale (cioè basato su ciò che probabilmente accadrà in futuro, ndr) si potrebbe consentire alle persone di andare in pensione tra i 63 e i 66 anni e 7 mesi, cioè con un’opzione fino a 3 anni e mezzo prima del previsto, risparmiando il 3% di pensione all’anno. Ma se un lavoratore ha più di 35 anni di contributi, 37 ad esempio, la percentuale può scendere al di sotto del 2,5%”.
Cioè quanto perde il pensionato che lascia il lavoro prima del previsto?
“Attenzione, il 3% non significa che il neopensionato prende meno soldi. Semplicemente se pensavo di dare 100 euro in tutto di pensione (è un semplice esempio numerico, ndr) a un uomo di 66 anni per i successivi vent’anni, se quel lavoratore sceglie di andare in pensione anticipata di 3 anni, dovrò spalmare quella stessa pensione su 23 anni. Quindi da 5 euro all’anno a 4,3 euro all’anno. Il totale di 100 euro non cambia, solo si abbassa la quota annuale”.
Qual è la sua proposta ulteriore sulla flessibilità in uscita?
“La possibilità di andare in pensione a 63 anni d’età e 35 di contributi con 4 anni d’anticipo e una penalizzazione del 12,24%. Penalizzazione che scende a 10,20% con 36 anni di contributi, all’8% con 37 anni per azzerarsi con 41 anni. Questo meccanismo si completa con l’istituzione di un fondo di solidarietà attraverso il quale le imprese paghino questa penalizzazione. Un sistema pensionistico rigido non ha davvero senso”.
Ma perché le aziende dovrebbero voler pagare queste penalizzazioni?
“Un’azienda non ha interesse a mantenere un dipendente che aspetta di svernare per arrivare alla pensione. Preferisce avere un giovane motivato per affrontare il momento del mercato”.
Da Lamberto Dini a Elsa Fornero, 20 anni di cantiere infinito sulle pensioni. Quasi come l’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Ma quando finiscono i lavori?“Se si fanno i controlli incrociati togliendo sussidi e pensioni a chi non ne ha diritto e si introduce la possibilità di andare in pensione in anticipo, il cantiere delle pensioni è chiuso e non lo si tocca più”.
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