Sostenere in tono allarmato che le «risorse del pianeta stanno finendo» è più di una moda:i è un mantra politicamente corretto, e azzardarsi ad affermare il contrario implica solitamente sguardi di compatimento da parte di coloro che «se ne intendono». Nel 2008, un'impennata dei prezzi del petrolio ben oltre la soglia psicologica dei 150 dollari al barile scatenò le illazioni degli infallibili esperti: la domanda di greggio non fa che crescere, i giacimenti vanno verso l'esaurimento e non riusciranno a starle dietro col risultato che presto un barile arriverà a costare 200 dollari per non scendere mai più. Panico generale, poi la realtà si è incaricata di riequilibrare le opinioni. Già nel 2009 il prezzo precipitò a 50 dollari, per poi risalire verso i 100 fino al 2014.
A quel punto arrivò la rivoluzione. Battezzata con il nome di fracking, consisteva in una nuova tecnologia di trivellazione che permette di raggiungere giacimenti profondi od occultati da strati di rocce resistenti: risultato, il mondo è stato inondato di petrolio e gas e i prezzi sono nuovamente scesi fino a stabilizzarsi intorno ai 50 dollari. Ai catastrofisti/ambientalisti non restavano che due argomenti: bollare il fracking di devastatore dell'ambiente, causa di terremoti e quant'altro; ed enunciare il wishful thinking secondo cui prima o poi i combustibili fossili finiranno lo stesso.
Il problema è quanto prima o quanto poi. È di ieri la notizia della scoperta nelle acque territoriali del Bahrein, piccolo sceiccato del Golfo Persico finora solo sfiorato dalla bonanza petrolifera che ha reso ricchissimi vicini come Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, di un gigantesco giacimento di «olio di scisto» (shale oil), le cui capacità sono stimate in 80 miliardi di barili. Oltre a circa 4 triliardi metri cubi di gas. Se le stime sono corrette, è la più grande scoperta petrolifera da 80 anni a questa parte, tale da trasformare il Bahrein (attualmente solo 57° nella classifica mondiale dei produttori) in un mega esportatore.
Nel frattempo, gli Stati Uniti grazie al fracking sono ridiventati i primi produttori mondiali di petrolio, raggiungendo e superando l'Arabia Saudita e la Russia. E Paesi come l'Egitto e Israele, che hanno cominciato a sfruttare nuovi giacimenti sottomarini di gas naturale di dimensioni colossali, sono oggi in grado non solo di coprire i consumi interni, ma di trasformarsi in esportatori.
La fortuna, si sa, viene presto o tardi seguita dai guai. La ricchezza di gas dei fondali del Mediterraneo orientale attira infatti cupidigia che ambiziose potenze regionali traducono in atti di prepotenza. È quanto è accaduto in febbraio al largo di Cipro, dove navi da guerra turche si sono presentate per impedire l'attività delle trivelle mobili dell'Eni, la compagnia di ricerca italiana.
Il presidente turco Erdogan ha sentenziato che quelle acque (che appartengono alla Repubblica greco-cipriota, membro dell'Ue), sono di competenza anche dei turchi di Cipro, protetti dal «sultano» di Ankara. A chi il gas dunque? A lui. E noi, zitti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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