T utto il mondo - dai giornalisti, ai servizi segreti, ai semplici curiosi, ai simpatizzanti - si informa su quanto accade nel mondo dell'integralismo islamico frugando su internet e in particolare nei social network, a partire da Facebook. Ma quelli che dovrebbero farlo per primi e per mestiere, cioè i poliziotti, si imbattono in un ostacolo quasi surreale: il messaggio «attenzione accesso negato». E a impedire l'accesso sono i computer del ministero degli Interni. Che nell'epoca del cyberterrore impediscono agli investigatori di utilizzare il più fondamentale e banale degli strumenti di conoscenza di quel che accade.A denunciare il blocco dei computer è ieri un comunicato del Silp di Trieste, il sindacato dei poliziotti legato alla Cgil. È una denuncia che arriva all'indomani delle polemiche sui buchi nella sicurezza nazionale, alle quali ieri il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, risponde con durezza, sostenendo che «ci sono i professionisti dell'ansia, cioè quelli che non dicono solo state attenti, che è giusto, ma vogliono mettere ansia come se il nostro Paese non fosse in grado di affrontare un grande evento o garantire la sicurezza».Ma nelle stesse ore in cui Alfano cerca di tranquillizzare l'opinione pubblica, dalla questura del capoluogo giuliano parte il comunicato sindacale che dice esattamente il contrario: «Ancora oggi se dagli uffici di polizia si cerca di individuare un sospetto, o l'autore di un crimine (non necessariamente grave) eventualmente presente sui social network cercando di accedere al suo profilo, oppure si cerca di acquisire un filmato dal quale rilevare elementi utili alle indagini, oppure si cerca di salvare una vita, eccolo lì, comparire l'intimidatorio messaggio: Attenzione, accesso negato».Come se la polizia fosse un ufficio qualunque, insomma, i vertici aziendali - ovvero il Viminale - avrebbero piazzato una serie di blocchi informatici per ostacolare l'accesso a internet dei dipendenti, probabilmente per impedire che perdano troppo tempo a farsi i fatti propri sul web invece di lavorare. Peccato che si tratti di dipendenti particolari, e che per loro navigare sui social sia uno strumento di lavoro spesso più efficace che un pedinamento o di qualche ora di appostamento. Possibile che davvero al ministero non se ne rendano conto? L'affermazione del sindacato è talmente clamorosa da rendere legittimo dubitare della sua fondatezza. Ma basta fare qualche verifica per avere la conferma: sì, le cose stanno esattamente in questo modo. E non solo a Trieste ma in tutte le questure d'Italia. E non solo nei commissariati, ma anche (con l'eccezione della polizia postale) negli uffici più esposti, Digos compresa. Per essere esatti, stanno anche peggio di quanto spiega la Cgil: a essere inaccessibili ai poliziotti non sono solo Facebook e gli altri social, ma praticamente tutta internet. Con l'eccezione di un ristretto numero di siti, espressamente autorizzati dal Viminale (come per esempio Google Maps) i computer in uso ai poliziotti non possono navigare sul web. Gli unici pc abilitati sono quelli dei funzionari: i quali, però, come è noto non conducono le indagini in prima persona. Gli investigatori devono arrangiarsi: «In caso di accertamenti urgenti - scrive la Cgil - i colleghi sono costretti ad utilizzare i loro strumenti personali per poter compiere il loro dovere».
Usano, cioè, il proprio smartphone o il computer di casa: come se dovessero fare i pedinamenti con la propria auto, con in più i rischi inevitabili di una connessione non protetta. Mentre il ministro annuncia che «il futuro è il riconoscimento facciale attraverso sistemi tecnologici», i suoi poliziotti non hanno internet.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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