Presunzione, vanità e troppe promesse. Così Matteo ha dilapidato un patrimonio

Dal 41% delle Europee alla disillusione: in 30 mesi il suo consenso è svanito

Presunzione, vanità e troppe promesse. Così Matteo ha dilapidato un patrimonio

La politica non perdona chi non sa leggere il futuro, chi sbaglia il tempo, chi smarrisce lo scenario che si profila all'orizzonte, ma soprattutto punisce la troppa presunzione.

È il 25 maggio del 2014, due anni e sei mesi fa. Il Pd ha appena vinto le europee con quasi il 41 per cento dei votanti. Ci sono molti astenuti, ma pochi ne parlano. Matteo Renzi scuote le spalle e si sente decisamente un fuoriclasse. Con una manciata di mosse ha strappato la ditta a Bersani, scippato Palazzo Chigi al troppo ponderato Enrico Letta e ora con un sorriso smart si appresta a incassare il consenso degli italiani. Perfino il presidente Napolitano ha capito che non c'è alternativa al giovanotto di Rignano. Matteo vuole scardinare il vecchio ordine. Questo significa mettere un giubbotto di pelle al Pd e togliere quelle facce da perdenti, cambiare l'arredamento, le idee, i dibattiti e le sedute di psicanalisi collettiva. Aprire le finestre. Il Pd non è più una cosa di sinistra, qualsiasi senso questa parola possa avere. Il Pd non è neppure il centro. Non sarà la vecchia Dc. Il Pd sarà ovunque, sfondando a destra, con una maggioranza che si riconosce in un solo nome: Matteo Renzi, appunto. È quello che lui chiama partito della nazione.

Le mosse sembrano facili. Mangiarsi i voti berlusconiani, con una mezza idea di farsi passare come l'unico erede possibile anche se di colore diverso, lasciare a sinistra un'opposizione inutile e nostalgica e contenere i grillini in una riserva indiana da prosciugare con gli anni di governo.

Renzi ha fretta. Il suo governo nasce come una speranza, come la scommessa di un giovane leader di portare l'Italia fuori dalla crisi. È questa, dovrebbe essere questa, la discontinuità rispetto a Monti e Letta. Solo che Matteo è arrivato al potere per una scorciatoia di palazzo. Non ha vinto le elezioni politiche. Quello che cerca è una legittimità popolare. È più una vanità che un vera necessità politica. Infatti non vuole un voto, sogna un referendum. Come fare? Ci pensano. La risposta è a portata di mano: le riforme. Cambiare la Costituzione, magari con un voto che non raggiunga i due terzi del Parlamento. A quel punto serve il referendum, che visto il voto delle europee sarà un plebiscito. Come Napoleone, insomma. Matteo è carico. Sarà un voto su di me, personalizzato. È così sicuro di vincere che sull'elezione del nuovo presidente della Repubblica fa saltare il patto del Nazareno. E tratta Berlusconi come un povero vecchio gabbato da un leader più furbo. Berlusconi si vendicherà. Ma di errori ne farà tanti.

Perde consenso e non se ne accorge, gioca di arroganza e prepotenza, e soprattutto perde la rotta. Gli italiani da troppi anni sentono la crisi sulla pelle. In troppe famiglie ci sono figli e nipoti che non solo non hanno un lavoro, ma rischiano di non averlo mai. Sono ragazzi maciullati dalla storia. Semmai la crisi passerà saranno troppo vecchi per avere un futuro. Se ne stanno accorgendo le mamme, lo sussurrano i padri. Il tempo passa e Matteo parla di riforme, di costituzione, leggi elettorali. Sembra una beffa. C'è paura in giro e la speranza si è consumata. Non basta il Jobs Act, non bastano gli ottanta euro e ancor meno le ultime mance elettorali.

Tutto questo comincia a puzzare di falso. Renzi oltretutto rincorre gli altri. Fa il populista e l'antieuropeista. Non ha un'identità precisa. Le sue promesse sono cambiali. Il plebiscito arriva, ma è contro di lui. Matteo evapora contro un muro di «No».

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