Roma - Continua a far discutere la dichiarazione di Papa Francesco che, a bordo dell'aereo che lo portava a Cracovia per la Giornata mondiale della gioventù, ha detto non esistere alcuna guerra di religione. Per il pontefice le guerre si fanno per i soldi, per le risorse della natura, per il potere, non in nome di Dio. E dopo la barbara uccisione di padre Jacques Hamel a Saint-Etienne du Rouvray, si allarga il dibattito se ci sia o meno una «guerra di religione». Abbiamo chiesto l'opinione di Cesare Cavalleri, direttore della casa editrice Ares che pubblica la rivista Studi Cattolici.
Le parole del Papa fanno discutere. Stiamo o non stiamo entrando nel vortice di una guerra di religione?
«Intanto credo vada fatta chiarezza su un punto. È bene sottolineare che la domanda posta a papa Francesco è stata fatta nel corso di una chiacchierata con i giornalisti».
Forse questo rende ancor più importante il messaggio, visto che ad ascoltarlo erano appunto i rappresentanti dei mass media.
«Non era una dichiarazione ufficiale o ufficiosa. Era soltanto una battuta improvvisata».
Cosa ha spinto secondo lei Bergoglio a essere così prudente?
«Sicuramente la preoccupazione di non calcare la mano. La situazione è delicata. Parlare di guerra di religione in un simile contesto potrebbe soltanto peggiorare le cose».
Perché?
«Perché così facendo si fa il gioco di chi vuole tenere alta la fiamma dell'odio, di chi perpetua massacri».
Ma allora perché è morto padre Jacques?
«Di certo non è stato barbaramente trucidato davanti all'altare per soldi o per una lotta di potere. Questo proprio non si può dire».
Quindi è stato ucciso in nome della religione?
«Diciamo che è stato ucciso a causa del fanatismo».
Fanatismo comunque religioso.
«Senza dubbio è il frutto di un fanatismo religioso. Che però non coinvolge di certo tutto l'Islam. Il sacrificio di padre Jacques è dovuto all'odio religioso se non altro per le modalità in cui si è consumato. Partire, però, da un singolo episodio per parlare di guerra di religione è senz'altro indebito».
La strategia dell'Isis, però, è fatta di singoli episodi che si compongono in una lunga catena di sangue. Non è guerra questa?
«Su questo punto il Papa parla chiaro. Il terrorismo dell'Isis ha per oggetto il potere politico e militare. È pur vero, tuttavia, che queste motivazioni non avrebbero il peso che hanno se non fossero spinte dal fanatismo islamico. Di quale Islam stiamo parlando, non spetta a me parlarne.
Padre Jacques è martire di una guerra di religione?
«È stato ucciso in nome di una religione. Spetterà alla Chiesa stabilire se ci sono tutti gli elementi per farne un martire cristiano o un beato. Come è stato il caso di monsignor Oscar Romero. È stato fatto beato non soltanto per il modo in cui è morto, ma anche per la vita che ha condotto».
Come ci si difende da questo odio religioso? Cosa deve fare un cattolico?
«Ovviamente vivendo la propria fede fino in fondo. Il problema però non è di chi ha fede».
E di chi allora?
«Il problema è che l'Europa tutta ha smesso di riconoscersi nei valori cristiani. Questa perdita di identità ci rende tutti più vulnerabili. Quando un uomo di fede come padre Jacques perde la vita, è comunque consapevole e quindi più coraggioso. Chi non crede in niente è più vulnerabile».
Lei crede nel dialogo interreligioso?
«È ovvio che bisogna esplorare le possibilità del dialogo fino in fondo. Ma per parlare bisogna essere in due. E l'Islam non è uno, ma una medusa dai mille tentacoli. L'imam di Rouen conosceva padre Jacques ed erano amici, eppure questo non ha impedito la tragedia».
Se i falchi lamentano la prudenza di Bergoglio le colombe sbandierano la bandiera dell'integrazione come antidoto al
terrorismo.«Visto che la cornice dei fatti di cui parliamo è l'Europa, dico che l'integrazione equivale all'adeguamento. Chi viene qui deve non dico condividere i valori delle nostre radici cristiane ma almeno le leggi».
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