O Dio! O Dio santo! Le sole immagini in diretta del crollo sono accompagnate da questa parola: Dio. Non conosciamo l'uomo che l'ha gridata, ripetendola tre, quattro volte, ma è probabile che tutti noi avremmo detto lo stesso. Nello spavento, nel tremore, nell'orrore di fronte a ciò che, almeno per un'ora, per mezz'ora, non ha spiegazione, prima che i discorsi si riannodino, prima che la sintassi si arrotoli intorno alle cause, alle responsabilità, alle colpe, la parola è soltanto una. Dio.
Perché Dio compare così, nella parentesi tra un evento e la sua tentata digestione. Tutti abbiamo un enorme, sacrosanto bisogno di riappropriarci delle cause e degli effetti, come potremmo vivere senza? Ma quando il cielo si apre all'improvviso, senza nemmeno sapere perché, una sola è la parola, ed è un grido, un'invocazione, una bestemmia, una preghiera: Dio! Anche se non sappiamo cosa vuol dire, perché Dio non è un sapere, non è un fatto culturale, è soltanto Dio, è soltanto l'evidenza che nessuna spiegazione ci sarà mai utile.
A chi non viene voglia di parlare di questa Italia che crolla, di questa incuria vecchia decenni, di questo continuo rimandare che sembra il nostro dna, di un malaffare che riesce a giungere fin dentro i piloni dei ponti, di questo nostro paziente, dolorante ricadere periodicamente in ginocchio davanti a un rosario di stragi evitabili? A chi non viene voglia di spegnere nell'indignazione quella parola urlata, quella preghiera?
Ma c'è un'immagine più potente delle altre, che ci obbliga a una nuova sosta, a un nuovo sgomento. Quel camion sul ciglio del precipizio, il primo a non essere caduto. In una ripresa da dietro, distinguiamo le scritte sul cassone verde, il nome di una catena di supermercati, poi vediamo un pezzo di ponte che crolla e, di là, sotto un cartello autostradale, si distingue, in lontananza, il frontale bianco di un altro furgone. Sta dall'altra parte del crollo, ma nelle immagini seguenti non lo vedremo più.
A pochi metri, a pochi centimetri dalla morte. Il primo dei salvati. Ci doveva essere un primo, il primo dei non morti. Restano i suoi pensieri, le cose che gli passavano per la testa in quel momento, cose normali, di tutti i giorni, i soliti fastidi, l'immagine di qualcuno che si ama, la rabbia per un torto subito, la tabella di marcia difficile da rispettare alla vigilia di Ferragosto. Oppure chissà che cosa. Le stesse cose che dovevano occupare la mente di tutti quelli che non potranno più dirci a cosa stavano pensando. Il rumore delle cose che non ci sono più.
Ed eccolo lì, quel camion, nel suo silenzio. Non spiegabile, non inseribile in nessun discorso, in nessuna sintassi. In un punto del mondo in cui le interpretazioni si dissipano, l'intelligenza si confonde come le lingue di Babele. Ascoltiamo quel silenzio: una sola parola, tra le migliaia del nostro vocabolario, potrà affiancarlo. Sempre la stessa. Dio.
La morte, si direbbe, non giunge uguale per tutti. Ma non è così. La morte arriva sempre comunque troppo presto, resta sempre qualcosa da fare, un articolo di giornale, una consegna per il tuo supermercato, una nuotata in mare, un anniversario da non dimenticare, una cena tra amici, in campagna. Un algoritmo potrà inviare gli auguri di Natale con la nostra firma anche dopo che saremo morti, ma non potrà dare un bacio a nostro figlio.
Anche per l'autista di quel camion, come per tutti noi, la morte arriverà comunque troppo presto. Questa volta non è arrivata. Un tizio del mio paese si trovava a Brescia, in Piazza della Loggia, in quel 28 maggio 1974, quando una bomba nascosta in un cestino esplose uccidendo otto persone. Una scheggia gli portò via l'orologio, lasciandolo illeso. Anche lui in bilico, come quel camionista, sopra la tragedia - ma anche dentro la tragedia. Mia zia, donna molto devota, commentò: «Si vede che non era arrivata la sua ora».
Ma chi, morendo, è capace di dire: «Ecco, è arrivata la mia ora»? Chi sa comporre discorsi (funebri) in quel momento? L'ora della morte non è la nostra ora, non è l'ora di nessuno, la bestia arriva quando vuole, distrugge, semina lacrime e desolazione. Guardando da fuori il destino di un uomo, o di una moltitudine, viene la tentazione di trovarci un senso, di scorgere un disegno, una necessità, una fatalità. Hegel. Marx.
Ma visto da dentro, mentre precipitiamo da un ponte, mentre anneghiamo in mare, non c'è nessun senso, nessuna causa, e il meccanismo che regge il mondo si rivela stupido, vuoto e cattivo, e non merita parole.
Tranne, forse, una. Sempre la stessa. Dio. Qualunque cosa abbiamo (o non abbiamo) in testa quando pronunciamo quella parola, perché conta poco quello che abbiamo in testa. In quel grido c'è di più.
Più di noi, più di quello che possiamo comprendere ma anche più di quel baratro dove tanti innocenti sono caduti, anche per noi.A pochi centimetri dalla morte, quel camion fermo sul bordo dell'abisso rimane come quella parola, che non precipita. Dio! Dio santo!
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