Quell'"arma di migrazione di massa" per piegare gli avversari più potenti

Dalla Cina alla Serbia: i rifugiati usati contro le democrazie

Quell'"arma di migrazione di massa" per piegare gli avversari più potenti

Le migrazioni sono una delle componenti fondamentali della politica estera. Lo erano nel XX secolo e lo sono, ancora di più, nel XXI secolo. Non sono però uno degli argomenti più graditi ai politologi. E soprattutto ci si sente in imbarazzo a mettere in luce quanto facilmente possano essere utilizzate come strumento politico di pressione. Ora finalmente viene tradotto in italiano, per i tipi della Leg, il saggio di Kelly M. Greenhill, scienziata politica che insegna alla Tufts University: si intitola Armi di migrazione di massa (pagg. 492, euro 20, pref. di Sergio Romano, in libreria dal 30 marzo). Il titolo è di per sé molto chiaro ma il sottotitolo contribuisce a levare ogni dubbio: Deportazione, coercizione e politica estera.

Se ormai alcuni studiosi, anche questi ignorati in Italia, hanno dimostrato quanto le migrazioni possano essere destabilizzanti a livello economico (Paul Collier su tutti), la Greenhill in questo suo saggio (che in inglese è disponibile dal 2010) mette chiaramente in evidenza come le migrazioni siano spesso uno strumento politico. E come tali vengano utilizzate in situazione di «confronto asimmetrico». Per dirlo in modo più terra terra: come un governo militarmente più debole possa creare un flusso migratorio, o utilizzarne uno già esistente, per ottenere in modo coercitivo quello che non potrebbe ottenere in nessun'altra maniera. Si tratta di una pratica, via via in crescita nel corso del '900, molto più comune di quanto si possa pensare.

Qualche esempio tra le decine di casi esaminati in Armi di migrazione di massa? Non molto nota è la tecnica che ad esempio il premier cinese Deng Xiaoping (1904-1997) utilizzò con il presidente degli Usa Jimmy Carter, nel 1979, durante uno degli storici incontri che portarono all'apertura della Cina. Carter disse che gli Usa non potevano liberamente commerciare con la Cina sino a che la Cina non avesse mostrato maggiore rispetto dei diritti umani. Deng chiese se tra questi diritti ci fosse anche quello di emigrare. Carter assentì. Deng allora sorridendo: «Va bene, allora, esattamente quanti cinesi le piacerebbe avere, signor Presidente? Un milione? Dieci milioni? Trenta milioni? Non c'è problema». La questione dei diritti umani in Cina uscì rapidamente di scena.

Quella fu una pura e semplice minaccia ma, in molti altri casi, sono state deliberatamente aperte frontiere o addirittura spinte alla fuga intere popolazioni. Ad esempio, quando la Nato intervenne in Kosovo il 24 marzo 1999 il presidente serbo Slobodan Milosevic mise in movimento le sue truppe per spingere fuori dal Kosovo quasi 800mila persone. Come spiega nel dettaglio la Greenhill, lo scopo dei serbi era solo in parte quello di una pulizia etnica. In un conflitto in cui, militarmente, era ovvio che non ci fosse possibilità di battere la Nato, riversare profughi sull'Europa sembrò al leader serbo una minaccia più che adeguata a destabilizzare i Paesi vicini. Prima minacciò un'azione del genere, poi la mise in pratica. Una volta aperte le ostilità, la sua mossa risultò inutile, per quanto devastante dal punto di vista umanitario.

Ma in realtà il saggio dimostra che, mediamente, l'utilizzo di flussi migratori è un'arma altamente efficace. Se prima abbiamo citato la Cina come potenziale aggressore demografico degli Usa, i cinesi sono stati più volte ripagati con la stessa moneta dai nord coreani. Pyongyang ha più volte aperto le frontiere verso la Cina quando i cinesi hanno cercato di imbrigliare le eccessive esuberanze del regime. Tanto che nel 2006 la Cina ha eretto una recinzione lungo un cospicuo tratto della frontiera, proprio per evitare infiltrazioni. E la strategia riesce ancora meglio verso Paesi che rientrino nel novero delle democrazie avanzate. Perché? Perché se i risultati e i costi di una immigrazione di massa si pagano dopo anni e per anni, le spaccature politiche si evidenziano subito. Sotto pressione il sistema politico, che si polarizza tra pro e contro i nuovi venuti, può facilmente collassare e rendere vulnerabili al ricatto. Per capirci, quello stesso tipo di ricatto che verso l'Europa utilizzò più e più volte Gheddafi (ora il ricattatore non c'è più e i barconi partono e basta).

Insomma contro le democrazie i Paesi mandanti possono facilmente: «strutturare l'emigrazione in modo che con ogni probabilità quelli riceventi reagiscano con azioni amministrative contraddittorie». A colpi di tabelle la Greenhill arriva a dimostrare che il successo di un'aggressione a colpi di profughi è del 57%. Ovvero il 57% delle volte chi è stato investito da un flusso migratorio ha capitolato verso chi glielo ha scatenato contro. Un risultato paragonabile a quello della deterrenza militare degli Usa e decisamente migliore di ogni deterrenza attraverso sanzioni economiche (33% di successo) o iniziative diplomatiche (19%).

Vi verrà allora da chiedere come mai di questo tipo di minaccia così attuale per l'Europa si parli così poco. Proprio in un momento in cui, ad esempio, la Turchia sta pesantemente utilizzando come arma politica i suoi immigrati nel Vecchio continente ed è pronta ad utilizzare i rifugiati siriani nella stessa maniera.

La risposta potrebbe essere nell'introduzione alla versione italiana a firma di Gianandrea Gaiani: «È la debolezza politica e

sociale dell'Europa a far diventare una super arma i flussi migratori illeciti». E di questa debolezza si ha gran paura di parlare e di rendere edotti i propri cittadini. Che però alla lunga finiranno per accorgersene da soli.

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