Milano Fiat iustitia ne pereat mundus. Il giorno di primavera del 1955 in cui Francesco Saverio Borrelli, morto ieri a 89 anni di età, varcò l'ingresso del tribunale di Milano, la massima era già lì, scolpita nei marmi del palazzo piacentiniano. Sotto quella scritta Borrelli è stato il protagonista indiscusso della stagione che ha portato la magistratura italiana - potere un tempo gregario e quasi parassitario del potere politico - a impadronirsi della scena. Eppure, dentro di sé, a quella visione salvifica della giustizia Borrelli non credeva. Era un cinico, un razionale. E se in una massima avesse dovuto immedesimarsi sarebbe stata l'opposta, il Fiat isutita et pereat mundus di Ferdinando d'Asburgo e Immanuel Kant: la giustizia come valore assoluto, indifferente alle sue ripercussioni sulla vita dei mortali.
Se ne va alle nove e mezza di ieri dopo una lunga malattia, in un letto del reparto di cure palliative dell'Istituto dei tumori. «Non ho il dono della fede», spiegava ai tempi in cui davanti alla sua Procura tremava tutta Italia: e solo sua moglie Maria Laura, i figli Federica e Andrea (lei manager, lui giudice) sanno se negli ultimi tempi si sia in qualche modo riavvicinato alla Chiesa. Di certo, quello che lo attende è un addio laico: la camera ardente di domani mattina nella sala maggiore del Palazzo di giustizia da cui regnò su una stagione irripetibile. Stessa location che cinque anni fa ospitò la camera ardente del suo successore, Gerardo D'Ambrosio: cui era legato più da contiguità operativa che da affetto o sintonia, ma che beneficiò a lungo della efficienza mai vista che Borrelli aveva portato nella Procura di Milano.
Era un uomo di spirito e un giudice severo. Da Magistratura democratica era uscito già nel 1969, insieme a Beria d'Argentine, scandalizzato per un documento che sparava a zero sul giudice Vittorio Occorsio, colpevole di avere arrestato il direttore di Potere Operaio, Francesco Tolin. Era la fase della deriva movimentista delle giovani toghe entrate in magistratura sull'onda del '68. Culturalmente intollerabile per uno come Borrelli: magistrato, figlio di magistrato, intimamente convinto di fare parte di una aristocrazia.
Mani Pulite fu lui: nell'efficienza, nell'accortezza nella composizione della squadra, nella spietatezza, come quando si oppose a D'Ambrosio, che voleva dare il salvacondotto a Bettino Craxi per venirsi a curare in Italia. In anni che ebbero risvolti crudi e a volte terribili, non lo si vide mai commuoversi. Si videro invece, e memorabili, i momenti di rabbia: eppure anche in quelli era visibile la lucidità quasi chirurgica con cui affossava l'avversario. Ne fecero le spese colleghi, ex colleghi e politici: primo tra tutti Alfredo Biondi, ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi, al quale Borrelli, inferocito per alcune sue dichiarazioni, diede - con un giro di parole assai esplicito - dell'ubriacone. Non era una vendetta: era un modo per delegittimarlo, per renderlo fragile e depotenziare, insieme a lui, i piani governativi in tema di giustizia.
Solo una lettura rozza della fase che lo vide protagonista può liquidarlo come
«toga rossa». Non aveva un progetto politico, a meno che questo non si intendesse la supremazia della magistratura - assoluta e indiscussa - sugli altri poteri dello Stato. Questo sì, era il suo progetto. Et pereat mundus.LF
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