Renzi non vuole schiodarsi "Si vota comunque nel 2018"

Il premier esclude urne anticipate se vince il No. Altolà a D'Alema: non usi il referendum come sua rivincita

Renzi non vuole schiodarsi "Si vota comunque nel 2018"

«Comunque vada il referendum costituzionale, si voterà nel 2018». Tornato dalle vacanze, Matteo Renzi parla alla Versiliana, ripete di aver «sbagliato» a personalizzare la partita e toglie dal tavolo l'ipotesi di elezioni anticipate.

Se anche vincesse il No, sembra dire il premier - pur dicendosi certo della vittoria del Sì -, non sarà lui a mettersi di traverso sulla strada di Sergio Mattarella, chiamato a gestire la complessa partita che si aprirebbe dopo una secca sconfitta del governo. Sconfitta dalla quale, ha sempre ribadito, Renzi sarebbe pronto a trarre le conseguenze, dimettendosi. Ma spetterebbe al Colle, a quel punto, decidere le mosse successive, e Mattarella ha fatto sapere che un voto anticipato non sarebbe nel novero delle sue opzioni. Con la sua affermazione di ieri, il premier sembra assicurare che non sarà lui - da segretario del Pd - a chiederle, ostacolando il percorso di un altro governo che dovesse nascere per tentare di riscrivere la legge elettorale. Poi Renzi lancia un segnale di pace all'Anpi, che minaccia di disertare le feste dell'Unità, e invita il presidente Smuraglia (fervido sostenitore del No) ad un confronto sulla riforma.

Intanto a sinistra scende in campo Massimo D'Alema, pronto a prendere la testa del fronte del No. Renzi attacca: «Se D'Alema avesse messo per combattere Berlusconi lo stesso impegno che mette per cercare la rivincita nel Pd...».

L'ex leader Ds convoca per il 5 settembre a Roma una assemblea per lanciare la sinistra per il No, e chiama a raccolta la minoranza Pd. Mettendola in grande imbarazzo: andare significherebbe farsi arruolare nelle truppe dalemiane e riconoscere la leadership del Rottamato per eccellenza. E schiererebbe definitivamente la fronda Pd sulla linea della rottura totale con il premier. D'Alema non fa certo mistero dei suoi intenti: «Bisogna far cadere Renzi a tutti i costi, la sua sconfitta è fondamentale per ricostruire un campo del centrosinistra», ripete. Per la minoranza Pd, già profondamente divisa al suo interno, si tratta di una scelta complicata. «Non possono farsi arruolare da D'Alema: finiranno per dividersi i compiti. Lui coprirà il fronte dei cattivi per il No e loro faranno quello dei buoni, continuando a inventarsi condizioni da porre a Renzi per avere l'alibi», dice un alto dirigente parlamentare renziano. E un alibi è necessario, visto che deputati e senatori della minoranza hanno ripetutamente votato sì alla riforma in Parlamento, e devono giustificare il proprio ribaltone.

Le modifiche all'Italicum sono l'alibi più gettonato, al momento: «Cambiando la legge elettorale si dà una prima risposta a chi a sinistra vuol votare No», dice Speranza. Ma il governo ha buon gioco a respingere quello che Debora Serracchiani bolla come «ricatto», ricordando che a ottobre sarà chiamata a pronunciarsi sull'Italicum la Consulta. Inutile discuterne prima. Fino al referendum, taglia corto il ministro Delrio, «l'Italicum non si tocca, assolutamente no». Ma dallo stesso governo un'apertura sulle modifiche all'Italicum è arrivata nei giorni scorsi dal ministro Andrea Orlando, che ipotizza l'abolizione del ballottaggio. Chiacchiere sull'Italicum a parte, per la ex Ditta il problema principale resta quello di «riprendersi il Pd» al prossimo congresso.

Un sondaggio agostano promosso ieri da Huffington Post restituisce però alla sinistra Pd un quadro tragicomico: Matteo Renzi vincerebbe col 59% se a sfidarlo fossero Speranza (7%), il presidente della Toscana Rossi (28%) e Matteo Orfini (6%). Se poi scendesse in campo la «papessa straniera» dal cognome blasonato, Bianca Berlinguer, Renzi vincerebbe lo stesso: 55%, contro il 15% della direttora «epurata».

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