Renzi tra odio e ricatti nel Pd Proroga di sfratto a Gentiloni

Sabato dimissioni in assemblea, poi congresso-lampo. In vista una "coabitazione" forzata con Palazzo Chigi

Renzi tra odio e ricatti nel Pd Proroga di sfratto a Gentiloni

«Avete chiesto il congresso? Lo avrete. E se qualcuno ha paura del confronto lo dica». Alla Direzione del Pd, come prevedibile, passa a larga maggioranza la linea di Matteo Renzi: congresso da avviare subito e da tenere, con le primarie finale, ad aprile.

Il segretario sfida i suoi avversari interni che minacciano la scissione: «Si dice o fai il congresso prima delle elezioni o me ne vado. Mi sembra un ricatto morale e sono difficilmente incline a cedere ai ricatti». E non risparmia colpi bassi ai vari D'Alema e Bersani, ricordando a chi critica le politiche industriali e bancarie del suo governo: «Nei decenni precedenti che abbiamo fatto su Telecom, su Ilva, su Banca 121?».

Quanto alla data di scadenza del governo Gentiloni, «che si voti a giugno, a ottobre o a gennaio non dipende da me», dice il leader del Pd. «Noi daremo una mano al governo, alle sue battaglie anche in Europa, ma smettiamola con l'ansia autoreferenziale sulla legislatura».

Il tentativo della minoranza, che con un lungo e complicato testo aveva chiesto la «garanzia che la legislatura si concluderà nei tempi naturali» invocata da Pier Luigi Bersani, viene respinto. La maggioranza renziana però registra un'incrinatura: Andrea Orlando non partecipa al voto, con alcuni dei suoi. D'altronde il ministro della Giustizia aveva messo agli atti la sua richiesta di un percorso diverso, chiedendo - al posto del congresso - una «assemblea programmatica» e denunciando una preoccupazione: «Il rischio che il Pd», avvitato nei prossimi mesi in un dibattito congressuale che - grazie alla candidatura annunciata da Michele Emiliano - potrebbe trasformarsi in una «sagra dell'antipolitica» diventi «l'epicentro dell'instabilità».

Una proposta di rinvio che, in casa renziana, viene letto come un tentativo di guadagnare il tempo necessario a far maturare nel Pd un'alternativa alla leadership dell'attuale segretario. Proposta prontamente raccolta e rilanciata dalla minoranza, che nel suo documento chiedeva appunto un'assemblea programmatica.

Tentativo respinto con 107 voti contro 12, più cinque astenuti. Sabato prossimo, dunque, si terrà l'assemblea nazionale del Pd cui Renzi si presenterà dimissionario chiedendo la convocazione del congresso, da tenere entro aprile (si ipotizza la data dell'8 aprile per le primarie). Sarà comunque l'ex premier a gestire il partito durante la fase di preparazione delle assise, anche se dovesse delegare i poteri formali al presidente del Pd Matteo Orfini.

Se però Renzi esce dalla Direzione rassicurato sulla compattezza della sua maggioranza e ottenendo - in barba ai contorcimenti della minoranza - la data ravvicinata di un congresso che con ogni probabilità lo incoronerà nuovamente leader, con una sinistra frammentata tra candidati di scarso spessore (Rossi, Emiliano, Speranza), sul destino della legislatura l'ex premier sa bene che la strada è più complicata. Che le elezioni nel prossimo giugno sono assai difficili, se non a questo punto improbabili. E anche la data di ottobre, ipotizzata da alcuni retroscena come mediazione avallata addirittura dal Quirinale per le elezioni politiche, è solo un ballon d'essai. Renzi quindi si acconcia ad un percorso che potrebbe essere assai più lungo di quello che vorrebbe, dandosi come priorità - intanto - la riconquista della legittimazione come leader del Pd. E si prepara ad una coabitazione di lungo periodo con il governo Gentiloni: «Siamo pronti a dargli una mano e a sostenerlo, anche nelle battaglie da fare in Europa».

Se infatti si finirà per votare a scadenza naturale nel 2018, la campagna elettorale renziana sarà tutta improntata alla sfida ad un Europa matrigna che non sa rispondere «alla grande sfida alla società aperta» lanciata da Trump e dai populisti.

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