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Renzi perde 40 voti al Senato: niente maggioranza sul lavoro

Un plotone di parlamentari firma sette emendamenti al testo dell'esecutivo. Bersani: governa grazie al mio 25%, mi rispetti

Renzi perde 40 voti al Senato: niente maggioranza sul lavoro

Trenta o quaranta voti in meno in Senato fanno la differenza tra la durata e la fine della maggioranza di governo.

E sulla carta, ieri, quella maggioranza Matteo Renzi non l'aveva più: la sinistra Pd, in tutte le sue innumerevoli sfumature, ha presentato sette emendamenti «pesanti» al Jobs Act (il testo clou è naturalmente quello che ripristina l'articolo 18 dopo tre anni di contratto) che sono stati firmati da un numero variabile di senatori del partito renziano, tra i 30 e i 40 appunto. Il che vorrebbe dire che, per respingere quegli emendamenti, i voti dei senatori di Forza Italia diventerebbero determinanti, «e allora la maggioranza cambierebbe e non si potrebbe far finta di niente: Renzi dovrebbe andare al Quirinale», spiega Pippo Civati, capofila dell'opposizione dura e pura al premier nel Pd.

Ma tutto questo scenario gravido di foschi presagi per il governo esiste solo sulla carta, e nelle speranze dei più fervidi antirenziani: la realtà, a parlare con i protagonisti, è assai meno allarmante. Anzi, secondo un renziano doc, è «tutta propaganda, da una parte e dall'altra, e non accadrà proprio un bel nulla». Del resto, lo spiega anche uno dei senatori che hanno sottoscritto alcuni di quegli emendamenti: «L'equazione tra firma degli emendamenti e sfiducia a Renzi piace alla stampa ma non funziona», dice Francesco Russo. «Il gruppo Pd voterà compatto il Jobs Act». Anzi, avverte Russo, «se qualcuno pensa di schiacciare una parte del gruppo sulla linea Camusso, io per primo ritiro la firma, e lo faranno anche molti altri».

Paradossalmente, la leader Cgil stavolta è diventata la bestia nera della minoranza Pd, per una ragione semplice: «Ha offerto una sponda perfetta a Renzi, gli ha alzato la palla per accelerare sull'articolo 18, con quel poco azzeccato paragone con la Thatcher», spiega Miguel Gotor, il bersaniano che ha lavorato ai sette emendamenti. E che ora dice: «Se si arriverà a votarli? Dipende da quanto il governo sarà disponibile a discutere nel merito: tutti noi siamo favorevolissimi al cuore del Jobs Act, l'universalizzazione dei diritti, che va estesa anche alla tutela del posto di lavoro».

Il primo match si giocherà in Direzione lunedì prossimo, e lì «non c'è storia», come dice il bersaniano Nico Stumpo: «Come ricorderete, alle primarie Renzi non ci ha sconfitti, ci ha asfaltati, e i numeri restano quelli». Ma Bersani ricorda al premier: «È grazie al mio 25% che governi, vorrei un po' di rispetto se non riconoscenza».

In verità, la partita interna c'entra poco o nulla con il merito della reintegra o del demansionamento. Ieri a Montecitorio si sono riuniti i capifila delle diverse fronde, dagli sfidanti alle primarie Cuperlo e Civati ai bersaniani D'Attorre e Fassina, da Rosy Bindi a Vannino Chiti e Cesare Damiano: quelli insomma che Renzi bolla come «i giapponesi», con l'aggiunta di qualcuno schierato con Renzi alle primarie ma oggi critico, come il lettiano Boccia, che spiega: «Ci vuole confronto sui contenuti e rispetto: con gli insulti non si governa». Sul piatto della discussione non c'era - se non come mero strumento - l'articolo 18, ma i rapporti di forza interni al Pd. Ossia il tentativo di costruire un minimo di fronte comune in grado di tenere testa al ciclone Renzi senza finire ogni volta spezzettato, con le spalle al muro e le mani alzate e con il premier-segretario che vince a mani basse. «Non dobbiamo più continuare a fare solo opposizioni velleitarie, finendo in due o tre come sulla riforma del Senato», è stato il ragionamento di Civati. «Insomma, continueremo ad andare in minoranza, ma un conto è andarci con il 10% com'è stato finora, un altro andarci con il 30%: a quel punto, Renzi dovrebbe fare i conti con noi», spiega un altro dei convenuti. Operazione non facilissima, ammette, visto che «pezzi non secondari di minoranza, come il presidente Orfini e il capogruppo Speranza, sono ormai più renziani dei renziani».

Ma nella Direzione di lunedì prossimo ci si proverà, proponendo un documento unitario su crescita e diritti che avrà al suo centro il cosiddetto «modello tedesco» sulla reintegra. «E vediamo se Renzi può dire di no», è la sfida.

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