Matteo Renzi è uno sconfitto di successo. Uno che delle sue dimissioni da premier fa una bandiera («In una settimana mi sono dimesso 4 volte, ho esaurito il numero di dimissioni medie di un democristiano in un millennio») e quando riconosce gli errori («Non abbiamo perso. Abbiamo straperso»), ne attribuisce la colpa agli altri, che non hanno capito. Uno che dice di aver sbagliato sfidando gli altri nel referendum a una «competizione muscolare», e subito lancia un'altra sfida, quella di andare al voto con il vecchio sistema, il Mattarellum.
Non è cambiato di una virgola, Matteo, dopo la batosta e confessa che non gli piace perdere. «In questi giorni ha fatto il papà e a scuola ho scoperto che mio figlio si arrabbia quando perde a ginnastica. Il Dna non mente».
Nella relazione all'assemblea del Pd, approvata con 481 voti favorevoli, 2 contrari e 10 astenuti, ha accanto il nuovo premier Paolo Gentiloni, che appare come una sbiadita controfigura vittima anche di una gaffe. Non c'era la sedia per il premier al banco della presidenza, alla fine è spuntata fuori grazie alla vicesegretaria Debora Serracchiani, come si vede in un video diventato virale in rete. Non è su di lui che punta Renzi, dentro e fuori il partito. Vuol rimanere l'uomo solo al comando, anche se nel Pd inaugura «la fase zen», con più «noi» che «io». «Il nuovo corso prevede che ascolti di più», dice. Però tutto sembra già scritto, il suo discorso è un rilancio di se stesso, di come utilizzerà gli errori non «per compatirsi ma per ripartire». Il principale? «Non è la personalizzazione, ma non aver capito che il punto del referendum era la sua politicizzazione». Ma se è stato voto politico il 59 per cento dei «signori del fronte del No», lo è anche il 41 per cento del Sì. E mentre i 20 milioni di vincitori non hanno «una proposta politica omogenea», gli altri 13 milioni e mezzo sì che possono averla. «Quei voti - dice Matteo- sono l'unica speranza per il Paese».
Tutto è studiato nei dettagli. Renzi sceglie la colonna sonora del film di Checco Zalone «Quo vado», che si chiama «La Prima Repubblica». Lì stiamo tornando, avverte lui, dopo la bocciatura della riforma costituzionale. L'ex premier, comunque, sa dove andare. Si prende la lunga standing ovation quando il presidente dem Matteo Orfini lo ringrazia per «i mille giorni di governo che tanto bene hanno fatto al Paese». Li racconterà in un libro, «lasciato non alla storia, ma alla cronaca». Il momento in cui «il Paese era fermo e si è rimesso in moto, perché non il premier ma il Pd ha accettato di sporcarsi le mani, senza dire sempre di no». Rimangono le riforme, che «non puzzano e segnano la storia del Pd».
Renzi rinuncia ad una resa dei conti immediata, niente «scontro nel partito sulla pelle del Paese», niente Congresso anticipato. Dice che farà «più l'allenatore che il giocatore», molto il «talent scout» di nuove leve. «La segreteria è stata un mio problema, un mio errore. Dobbiamo essere più plurali».
Fa «l'analisi della sconfitta», a favore dei media «che hanno parlato solo dei miei errori». Abbiamo perso al Sud, dice, puntando «troppo sul notabilato e poco sulle forze attive». Sui giovani arrabbiati e sui trenta-quarantenni «disillusi». Nelle periferie, dove il lavoro fatto è stato «raccontato male». «Abbiamo perso in casa, nella nostra fascia di riferimento e i gol in trasferta valgono doppio».
Anche sul web, «diffusore di falsità» e arriva la stoccata al M5S, «azienda privata che firma contratti con i candidati» e alla giunta Raggi: «Per bloccare la corruzione scegliere meglio i collaboratori». Altri avversari sono quelli del centrodestra, che «ruota ancora attorno a Berlusconi e se la Corte di Strasburgo lo riammetterà, sarà nostro piacere sfidarlo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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