"Resistere resistere resistere". E la battaglia diventò una resa

L'appello del 2002 arrivò dopo anni in cui viveva la guida del pool come una guerra. In realtà fu un grido da disperato

"Resistere resistere resistere". E la battaglia diventò una resa

P er capire davvero la stagione che ieri si chiude definitivamente con la morte di Borrelli, bisogna riavvolgere il nastro di quasi trent'anni. Portarlo alla mattina del 18 febbraio 1992, nella caserma di via Moscova dei carabinieri milanesi. È il rapido briefing con cui viene ufficializzata la notizia che è già sui giornali, l'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. «Al termine di una indagine durata oltre un anno....»: così esordisce l'ufficiale che parla ai cronisti. È una verità che sparirà in fretta. La versione ufficiale, ancora oggi valida, è quella di un arresto in flagrante, scattato grazie alle accuse, pochi giorni prima del bliz, di un fornitore del Trivulzio, Luca Magni. Le manette a Mario Chiesa, dice la versione ufficiale, arrivano quasi per caso: e altrettanto per caso innescano un terremoto.

Poi c'è l'altra storia, quella su cui solo le incaute parole dell'ufficiale gettano un filo di luce: un'inchiesta non estemporanea, arrivata passo dopo passo a individuare in Chiesa l'anello debole di Tangentopoli, e a incastrarlo utilizzando Luca Magni come una sorta di esca. Non un complotto, si badi: solo una verità più complicata. Ma che rende meno inspiegabile quanto accade dopo: l'ingresso in scena di Di Pietro, le confessioni a raffica, il terremoto che investe il Paese.

Comunque siano andate le cose, Borrelli ne fu il regista. Fu lui a benedire il rito ambrosiano delle manette inaugurato da Di Pietro, gli interrogatori in simultanea, gli arresti a confessioni ancora calde, che fu la vera ricetta del successo dell'inchiesta. Fu lui, dopo avergli lasciato briglia sciolta per un po', ad affiancare all'ex poliziotto molisano colleghi più rodati come Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, in grado di fornire spessore giuridico alla sua furia investigativa. Fu lui a indirizzare con mano ferrea l'inchiesta nei gradini successivi che si aprivano, di sviluppo in sviluppo.

Diceva la verità, quando - con Montecitorio ormai decimato dagli avvisi di garanzia - giurava di non avere immaginato, nella primavera del 1992, dove l'indagine avrebbe portato il suo pool. Ma, quando capì quali orizzonti si stavano aprendo, fu lui a decidere che Mani Pulite non sarebbe stata l'ennesima puntata della serie (fino ad allora non lunga) di indagini giudiziarie sul Palazzo, un capitolo destinato a chiudersi in qualche modo con un armistizio. Quello era lo scontro finale, da cui solo uno dei contendenti sarebbe uscito in piedi: «Il problema non è di uscire da Tangentopoli, ma di penetrarvi fino al cuore per espugnarla, raderla al suolo, cospargervi il sale», disse.

A volte dietro le quinte, a volte davanti ad esse: ma è sempre Borrelli a dettare tempi e contenuti della battaglia con il potere politico. Quando i suoi quattro pm (al terzetto si era aggiunto Francesco Greco, oggi suo erede) vanno davanti alle telecamere chiamando il Paese alla rivolta contro il «decreto salvaladri» del governo Berlusconi, Borrelli non c'è, è rimasto nel suo ufficio, dietro la porta chiusa. Ma hanno la sua benedizione. È lui, d'altronde, a considerare Berlusconi come il paladino della liquidazione totale della autonomia della magistratura italiana, l'avversario con cui nessuna mediazione è possibile. È Borrelli a firmare l'avviso di garanzia al Cavaliere del dicembre 1994, è lui a condurre l'interrogatorio. Borrelli sceglie di esporsi in prima persona, rompendo la tradizione che voleva i capi delle Procure un passo indietro: lo fa perché sa che solo così lo scontro può essere vinto.

Poi le cose sono andate come si sa, e alla fine anche lui - dopo Colombo e Di Pietro - arrivò alla amara conclusione della inutilità di Mani Pulite: e in fondo il leggendario «resistere,

resistere, resistere» del 2002 era più un grido di dolore che una chiamata alle armi. Aveva spazzato via una Repubblica, aprendo la strada ad una in cui faceva ancora più fatica a riconoscersi. Chissà se aveva dei rimpianti.

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