Morire per una turbina. La cronaca, come la storia non ama i se, ma le inchieste sì. E quel che affiora ora provoca un sentimento di sgomento: il disastro del Rigopiano poteva essere evitato. È vero, la turbina, la famosa turbina della Provincia che tutti attendevano, era rotta. Ma un operaio dell'Anas, sentito dai carabinieri, racconta che di turbine disponibili ce n'erano addirittura due. Inutilizzate e ferme a Penne, a 18 chilometri dall'albergo. Due ore e mezzo prima dell'irreparabile, un sms avvertì la Provincia di Pescara: «Ci sono due turbine pronte». Quel messaggio fu ignorato. Forse era tardi, chissà, o forse no; in ogni caso i soccorsi sarebbero arrivati prima, molto prima. E poi, per dirla tutta, l'episodio conferma quel che è emerso su tutti i lati del dramma: sciatteria, superficialità, comunicazioni approssimative se non peggio, i soliti rimpalli di responsabilità.
Morire per una turbina. Dice proprio cosi don Tiziano, nel celebrare i funerali di Marco Vagnarelli e Paola Tomassini, due delle 29 vittime. È, o dovrebbe essere un'omelia, ma l'orazione si trasforma in una requisitoria dai toni durissimi. «Non si può morire di turbina - attacca il sacerdote - la nostra parrocchia di Castignano ce l'ha e non stiamo ai piedi del Gran Sasso». Ma fra le dolci colline delle Marche. «Chiedo con tutto il cuore a chi di dovere - prosegue il prete - questi soldi, ma subito, spendiamoli per le cose che servono, non sciupateli, non ve li magnate». Non ce la fa a trattenersi, don Tiziano e a un certo punto esplode: «Marco e Tiziana, due morti inutili. Ma che siano gli ultimi». Rabbia e lacrime per un'invettiva sempre più affilata: «L' altro giorno ho sentito che c'è un parco macchine dove ci sono non si sa quanti mezzi della Protezione civile fermi per la burocrazia. Facciamo schifo».
Morire per una turbina. Morire perché una strada non era stata pulita dalla neve e gli ospiti non potevano andarsene. Morire perché le mail non sono state lette. Morire perché l'allerta valanghe, 4 su 5, non era arrivata fino a Farindola, come ribadisce il sindaco del piccolo centro, o se era pervenuta nessuno l'aveva presa in considerazione. Morire perché la telefonata di allarme non è stata creduta. Morire in tanti modi. Troppi e tutti insieme.
Cosi suonano quasi surreali le parole che il borgomastro Ilario Lacchetta ha scandito venerdì pomeriggio, ai microfoni della Vita in diretta: «Noi eravamo in emergenza da lunedì sera, ho sollecitato affinché mandassero mezzi adeguati per quella neve, la mia premura è stata quella di allertare all'uso di mezzi turbina, ho fatto la prima richiesta martedì sera, la seconda mercoledì alle 13». Se è vero quello che ora svela quell'sms, la soluzione era a pochi chilometri, ma nell'accavallarsi di autorità varie, nel rimbombare di dialoghi fra sordi, nel labirinto burocratico, nessuno se n'è accorto.
Lo stesso labirinto da cui non uscirà mai Bruno Anzuini, che ieri sera è morto a 52 anni di freddo e terremoto. In roulotte dal sisma del 18 gennaio, il dipendente comunale è stato colto da malore a Montereale, nell'Aquilano. Già in precarie condizioni di salute, non ha retto allo stress e alle temperature, scese in questi giorni anche a 17 gradi sotto lo zero.
Polemiche e tensione dunque.
Anche alla Commissione grandi rischi: dopo la sparata del presidente Sergio Bertolucci sul pericolo di un nuovo Vajont, ora arrivano le dimissioni del vicepresidente Gabriele Scarascia Mugnozza. Un'altra lacerazione nelle istituzioni.
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