Tutti sappiamo quanto sia difficile parlare dopo una tragedia come quella di Dacca. Per chiunque. E possiamo immaginare quanto ciò sia ancora più difficile e delicato per la Chiesa. Perché gli ostaggi uccisi a Dacca, tra cui i nove italiani, sono stati colpiti dai fondamentalisti islamici in quanto (nelle stesse parole dei terroristi) «stranieri crociati», cioè infedeli. Cioè - nella mente degli jihadisti, che non distinguono sfumature di credo o di concessione tra gli occidentali - «cristiani».
È difficile per tutti parlare, certo. Però questa volta, in cui a cadere sono così tanti italiani, appare troppo pesante il silenzio della Chiesa. È sbagliato generalizzare, ma l'impressione è che pochi parroci ieri, nelle loro omelie, abbiano ricordati i «martiri» di Dacca, massacrati dalla furia cieca dei musulmani radicali che chiedevano come prova di fede di recitare i versetti del Corano. E, soprattutto, ci si aspettava una parola in più da Papa Francesco, apparso troppo rispettoso e troppo timoroso dei fratelli musulmani. All'Angelus ieri Bergoglio ha chiesto di pregare per le vittime dell'attentato, e ha invitato a «chiedere al Signore di convertire il cuore dei violenti accecati dall'odio». Senza chiamare fondamentalisti islamici i persecutori, e senza chiamare cristiani i perseguitati. La «strage» è generica, le «vittime» sono semplicemente occidentali.
Eppure la Chiesa, fondata sulla parola, non può e non deve avere paura delle parole. Non deve cedere al silenzio. Anche l'omissione è un peccato. E ogni dimenticanza - per le madri, i padri, i figli dei morti di Dacca che si professano cristiani - è un dolore e una ferita in più. E sì che, nel corso dell'Angelus Papa Francesco, parlando dei missionari cattolici nel mondo, aveva detto che il Vangelo rende il cristiano «consapevole della realtà difficile e talvolta ostile che lo attende. Infatti Gesù non risparmia parole su questo e dice: Vi mando come agnelli in mezzo a lupi. È chiarissimo: l'ostilità è sempre all'inizio della persecuzione dei cristiani...». Gesù diceva pecore in mezzo ai lupi.
Anche la Chiesa conosce le ragioni della realpolitik. Il mese scorso la giornalista francese Catherine Cornet, esperta in cultura e politica del Medio Oriente, su Internazionale, in un intervento intitolato Perché ai musulmani piace Papa Francesco, ha ricostruito la «strategia» mediatica in tema di Islam di Bergoglio, attentissimo in ogni discorso, intervista, incontro e persino fotografia a evitare passi falsi verso i fratelli musulmani, con i quali ha instaurato un dialogo molto stretto, guadagnandosi un reciproco rispetto (un mese e mezzo fa, al quotidiano cattolico La Croix, Francesco ha dichiarato che «è vero che l'idea della conquista appartiene allo spirito dell'islam, ma si potrebbe interpretare secondo la stessa idea di conquista anche il Vangelo di Matteo, quando Gesù invia i suoi discepoli a tutte le nazioni»...). Questo al suo precedessore, Papa Ratzinger - anche a causa dell'equivocato discorso di Ratisbona - non accadde. Anzi. L'atteggiamento dei due pontefici di fronte all'Islam e alla sue derive fondamentaliste è diversissimo. Così diverso che, nella sua facile capacità di sintesi, è stato notato anche da Matteo Salvini.
Il quale ieri sui suoi social ha scritto: «Papa Francesco dopo l'ennesima strage per mano islamica ha detto: Dio converta il cuore dei violenti accecati dall'odio. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Benedetto XVI, che sui rapporti con l'islam mi sembra avesse le idee molto più chiare... In attesa della conversione, quanto altro sangue dovrà scorrere?».
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