Se il Veneto devastato non merita mai la solidarietà di nessuno

Case distrutte, 500 sfollati, 55 milioni di danni, arte a pezzi. Ma aiuti e attenzione zero. Perché i veneti hanno un difetto: non si lamentano e fanno tutto da soli

Se il Veneto devastato non merita mai la solidarietà di nessuno

«Roma devastata dalla corruzione, Marino sottovalutò il problema» era ieri uno dei grandi titoli di Repubblica per raccontare la relazione del prefetto Franco Gabrielli. Bene. Anzi male. Ma c'è un'altra devastazione di cui televisioni e giornali si sono dimenticati e non è quella inflitta da uomini avidi di denaro e poveri di moralità, ma di una natura che purtroppo sempre più spesso (e non si capisce perché), da madre si trasforma in matrigna. Niente titoli e nemmeno una foto per il tornado che mercoledì ha travolto la Riviera del Brenta, l'entroterra di Venezia dove ha spazzato via tutto. Eppure le immagini sono terribili. Un bilancio che provvisoriamente parla di un morto, 87 feriti tra i quali molti gravi, 55 milioni di euro di danni, duecento sfollati, cinquecento case e una decina di inestimabili ville venete danneggiate. O meglio distrutte.

Come la seicentesca villa Fini. E la fortuna è stata che i proprietari, Antonio Piva e la moglie entrambi medici erano usciti per una chiamata urgente e i quattro figli erano da amici. In casa solo il gatto Sem trovato ieri ancora vivo tra le macerie dai vigili del fuoco. «Come era e dove era», ha promesso ieri il governatore Luca Zaia arrivato nel luogo simbolo della tragedia. Una frase che a Venezia ricordano essere riecheggiata altre due volte, dopo il crollo del campanile di San Marco e dopo il rogo del teatro La Fenice. Impegni mantenuti in terra di Serenissima. Senza lamentarsi e senza chiedere troppo aiuto in giro. «Cosa è successo lo vedete - la risposta quasi identica alle poche interviste che hanno sfondato il muro di silenzio - L'importante è essere vivi, il tetto la ripareremo». Eppure c'era di che essere disperati di fronte a un tornado che ha sollevato le macchine cinque metri da terra. Che entrato nelle case sfondando i portoni ha trascinato in aria i mobili. «Non li abbiamo più nemmeno trovati», ha raccontato un testimone senza inumidire nemmeno gli occhi. Nessuno strepito, nessuna invocazione e Dio o allo Stato. Tanto i veneti sono rassegnati. Lo sanno che ci sono tragedie di serie A e di serie B. E che le loro sono sempre di serie B. Forse che qualcuno ricorda l'alluvione del 2010? O qualcuno ha mai ringraziato quei friulani lì vicino che dopo il terremoto del 6 maggio 1976 si sono ricostruiti senza tante storie case, capannoni e fabbriche? Quelli che dopo aver utilizzato i container, li hanno restituiti migliori di quando li avevano ricevuti, con arredi fatti a mano e le fioriere alle finestre. Eppure il terremoto è sempre quello dell'Irpina, per il quale dal 1980 paghiamo ancora 75 lire (oggi 0,0387 euro) su ogni litro di carburante. E altri 0,0089 euro per l'alluvione in Liguria e Toscana del 2011.

Le proporzioni (almeno questa volta) potranno anche essere diverse, ma è difficile non rimanere colpiti dal grido di dolore di Zaia costretto a dire «voglio vedere le aperture dei Tg e dei giornali nazionali, perché questo tornado è stato come un terremoto: per noi è la catastrofe delle catastrofi». Ma perché? C'è bisogno di chiedere un titolo o un servizio di tiggì per una tromba d'aria a 300 chilometri all'ora, seconda nel Veneto solo a quella che nel 1930 sradicò e abbattè la chiesa di Selva del Montello nel Trevigiano? Evidentemente c'è bisogno. Anche se la Regione Veneto (che evidentemente poco si fida) metterà a disposizione un conto corrente per raccogliere fondi. Su le maniche e arrangiarsi a ricostruire «come era e dove era» uno dei paesaggi più soavi che possa captare d'attraversare.

Quella Riviera del Brenta dove i nobili veneziani si facevano costruire da gente come Palladio le ville per l' otium della villeggiatura celiate da Carlo Goldoni. E dove ieri sono stati arrestati due sciacalli, marito e moglie di origine rom trovati a rubare il rame delle grondaie.

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