Sì all'albo degli imam, ai sermoni tradotti in italiano, sì alla trasparenza e alle regole, «ma la prima delle regole è la Costituzione, che prevede libertà di culto e non si può reprimere con leggi proibizioniste». Questa la linea di Massimo Abdallah Cozzolino, presidente della moschea di piazza Mercato a Napoli e segretario generale della Confederazione islamica italiana, la maggiore sigla dell'islam in Italia, che conta 345 centri affiliati in tutto il Paese, molto frequentati da marocchini.
Imam Cozzolino, siete disposti a fare passi avanti in nome della sicurezza?
«Sono già stati fatti passi avanti, il patto con il ministero dell'Interno non è una cosa da fare, è già siglato ed è caratterizzato dalla forma pattizia e l'impegno di due parti. Da parte nostra c'è un impegno coraggioso a proseguire nel rapporto con lo Stato, centrale e periferico. Per favorire questa intesa lo strumento è il dialogo costante e costruttivo con le istituzioni».
Per voi le moschee sono parte della soluzione, più che del problema?
«Le nostre moschee sono già soggette a nostra mappatura. Noi abbiamo la carta d'identità dei nostri centri, numeri, indirizzi e contatti, conosciamo i predicatori. Questo è un elemento di fiducia. Non tutto è on line, per ragioni di privacy, ma è inviato a ministero e prefettura».
Luoghi di culto, le piace la legge lombarda?
«No, non possono esserci leggi che comprimono le libertà religiose e potrebbero avere l'effetto opposto, potrebbero alimentare altro odio e violenza».
La formazione degli imam?
«È importantissima, ne abbiamo discusso tanto e ci stiamo impegnando. C'è stato un primo corso a Ravenna, lezioni di diritto pubblico, indicazioni giuridiche sugli adempimenti per la creazione di luoghi culto, noi siamo contrari alla apertura come funghi, le comunità devono aprirsi in modo armonioso col contesto».
Sì ai sermoni in italiano?
«Non è una direttiva che viene dal ministero, è una assunzione di responsabilità nostra. Il sermone viene svolto in italiano o tradotto. Abbiamo fatto incontri per i giovani. Certo, molti migranti non sono in possesso della lingua, si possono commettere errori, ma noi vogliamo rispondere alla esigenza di trasparenza, nei limiti del culto, e fermare questa ondata di odio».
Maryan Ismal propone possibili controlli familiari anche con «app» sui giovani.
«Qualsiasi intervento rispettoso della dignità dei giovani della religione è utile. La sicurezza è un cardine della democrazia, ma va detto che si è scoperto che la radicalizzazione avviene all'esterno dei luoghi di culto. Non possiamo dare spazio ai cattivi maestri presenti nel web che proseguono nella campagna di incitamento ad atteggiamenti nichilistici. Questi fatti cruenti ed efferati vengono da percorsi non propri dei musulmani, spesso ragazzi da poco convertiti, cui dobbiamo trasmettere messaggi chiari».
Vuol dire che la violenza jihadista dipende da una carenza di cultura musulmana?
«Senza dubbio, pensiamo ad Anis Amri, il terrorista fermato a Milano. Stiamo parlando di personaggi con percorsi di vita complessi, difficoltà di inserimento, con un approccio contrario a qualsiasi principio islamico».
Ma perché questi terroristi sono musulmani?
«Guardi, dei rapporti Usa del 2017 dimostrano che la maggioranza degli omicidi vengono compiuti non da estremisti islamici ma da xenofobi e hanno sfondo razzista, anche se parlando del fenomeno terrorismo noi ammettiamo di essere parte in causa. Dobbiamo rispondere, non basta dire che non ci appartiene, ci assumiamo una responsabilità, come d'altra parte la Chiesa cattolica si assume la responsabilità di intervenire in tema di ius soli e immigrazione».
Lei non direbbe che i terroristi fanno parte del vostro album di famiglia?
«No, non è il mio album di famiglia.
Chi l'ha detto forse faceva riferimento ad altro. Per me è un problema sociale che tocca anche la comunità islamica, che non è segregata dal contesto sociale. In questo senso ci sentiamo messi in causa e cerchiamo formule adeguate».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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