«A Genova furono commessi degli errori, la cui ombra ha fatto da schermo a violenze ben più gravi commesse da chi mise una città a ferro e fuoco».
Solo errori? È un po' poco, dottor Tonelli.
«Guardi che nessuno vuole chiedere indulgenza per quello che è successo alla Diaz. Ci furono responsabilità gravi, da parte di chi decise l'operazione, e che attraversarono tutta la catena di comando. Non si discute, è storia. Su questo la sentenza di Strasburgo fa affermazioni che non si possono contestare».
Gianni Tonelli è il segretario del Sap, il sindacato autonomo di polizia. É quello che difese i poliziotti accusati per il caso Aldrovandi, accolti al congresso del Sap da una standing ovation che fece venire i brividi a molti. E ieri la notizia della sentenza della Corte per i diritti dell'uomo lo raggiunge proprio mentre chiede un nuovo processo per i poliziotti condannati per la morte di Aldrovandi. Vicende lontane eppure in qualche modo affini, quelle del ragazzo romagnolo e della «macelleria messicana» alla Diaz.
Quindi anche per lei hanno ragione i giudici che hanno condannato l'Italia?
«Piano. Cosa dice la sentenza di Strasburgo? Che in Italia la tortura non è punita. Ma le cose non stanno affatto così. Non esiste un reato di tortura, è vero. Ma per torturare una persona devo commettere una serie di reati che vanno dal privarla della libertà, alla violenza privata, alle lesioni, all'abuso d'ufficio, che sono sufficienti per tenermi in carcere per due vite».
Ma proprio la vicenda genovese dimostra che un intervento legislativo serve: paradossalmente per il G8 sono stati condannati i suoi colleghi accusati di falso ideologico e falsa testimonianza, ma se la sono cavata quelli accusati di avere commesso direttamente le violenze, perché il reato di lesioni si è prescritto, essendo punito assai blandamente.
«Va bene, accettiamo pure che il reato di tortura vada introdotto. Non siamo contrari. Ma sapete perché una legge sul reato di tortura ancora non è stata approvata nel nostro paese? Il motivo è semplice: ogni volta che si mette mano alla legge prende voce il partito di chi ha come vero obiettivo non tutelare il cittadino ma colpire le forze di polizia, e dietro a questo obiettivo c'è il furore ideologico verso chiunque indossi una divisa. È un partito che ha numerosi aderenti dentro al circo mediatico e alle istituzioni. Sono loro a pretendere di dettare la legge, e va a finire che esagerano. A quel punto la legge si ferma, non perché siamo noi a fermarla, visto che non ne abbiamo il potere, ma è il sistema a rendersi conto della sua assurdità».
La corte di Strasburgo non sembra ritenerla affatto assurda.
«L'assurdità è nel fatto che si consideri la tortura come un reato che può essere commesso solo da un pubblico ufficiale. E perché? Dove sta scritto che se un qualunque normale cittadino tortura il prossimo non debba essere punito alla stessa tregua di un poliziotto? È qui che viene a galla tutto il livore nei confronti delle forze dell'ordine».
Genova non è stato l'ultimo caso in cui siete stati accusati di avere la mano pesante.
«Eh lo so, ogni asino che raglia finiamo alla sbarra. E ogni occasione è buona per tirare fuori proposte vecchie e inefficaci come l'alfanumerico (il codice identificativo sulle divise di poliziotti e carabinieri impegnati in ordine pubblico, ndr ), che servirebbe solo a sommergere di denunce pretestuose chi fa il suo lavoro. La soluzione più semplice e ovvia sono le telecamere sui caschi, che documenterebbero in modo inequivocabile ciò che accade in piazza. Ma la telecamera non fa sconti, documenta le violenze da una parte e dall'altra. Infatti a non volerla sono proprio i no global».
Forse andrebbero chiarite meglio le
regole di ingaggio: quando e come si può usare la forza.«È questo il vero problema. La formula del codice non basta più. Facciano le regole, e noi poliziotti ci adegueremo. Ma per fare le regole ci vuole coraggio».
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