Non si fa una scissione per il calendario, dice Andrea Orlando, nuovo astro saccente del Pd. Certo che no. O forse sì. Va sentito il vecchio saggio Bersani, che la scissione la considera «già avvenuta»: in particolare, dalla gente.
Il giorno dopo, l'ex leader parla volentieri per smaltire le tossine di una Direzione nella quale «ho visto solo dita negli occhi». Si sente a un bivio, come gli altri: un bivio col buonsenso. Servirebbe riflettere, invece «Renzi mette il Paese nel frullatore». Il primo e ultimo amante spassionato della Ditta nel giorno di San Valentino mette in discussione persino la relazione di una vita: «Se diventa PdR, io non gli voglio mica più bene». Non si aspetta più nulla da Renzi; forse da qualcuno dei suoi, «che sappia farlo ragionare». Era fondamentale allungare fino a scadenza naturale la vita della legislatura e del governo, ma Renzi ha detto che «la data elettorale è una cosa da addetti ai lavori: io strabilio». A questo punto, ragiona Bersani, non ha senso andare neppure all'Assemblea nazionale. Diserzione che segnerebbe l'ormai ineluttabile momento della scissione, lo conferma un allarmatissimo Cuperlo: se la sinistra dem sceglie di non andare è «una scelta irreversibile».
Scindersi, dice Cuperlo, va contro logica, visto che è il «Comandante ad ammutinarsi». Ma è davvero contro logica? Forse no, e allora torniamo daccapo, ripartiamo dal calendario. «Non mi si dica che la questione è di calendario, perché il calendario è solo tecnica», spiega Bersani. Tecnica o tattica? Si sospetta che, pur di avere le elezioni a giugno, Renzi abbia provocato apposta i vecchi leader, spingendoli sull'uscio fino alla frattura. Quale sarebbe l'effetto politico di una scissione? La crisi del governo. Non determinata da Renzi, ma da chi esce dal Pd. Crisi non voluta, come si conviene, ma che costringerebbe Gentiloni a risalire sul Colle e, visto il frantumarsi del partito di maggioranza relativa, suggerirebbe a Mattarella di cedere sulle urne a giugno. Piano forse disperato, ma plausibile. Anche perché alle urne la sinistra dem ci andrebbe disorganizzata, e il Pd renziano avrebbe l'opportunità di marciare secondo gli ordini del Capo. Come si vede, la scissione è anche questione di calendario. Ma non solo. C'è dell'altro. Chiari i motivi teorici: il Pd è un partito nato dall'idea sbagliata di dare al popolo comunista una guida democristiana, by-passando un bel po' di questioni, a cominciare da quella socialista. Il partito, poi, non è mai partito sul serio; anzi, come ha sostenuto Erri De Luca, è «partito e fermato». Sì, s'è fermato subito: sulle questioni di potere. Che si trattasse di banche, di nomine eccellenti e di ogni tipo di spartizione in ogni campo. Gestione di una lista infinita di amministratori, a ogni livello, in ogni regione. Per non parlare della lista dei candidati e di quella, meno esposta, dei non-candidati da risarcire. Come ha detto pochi giorni fa Emiliano «il segretario non si dimette perché ha un sacco di soldati e salmerie da collocare, ha da salvaguardare un sacco di persone e se dovesse perdere la possibilità di fare le liste, non so se i sondaggi lo darebbero ancora in testa». Dulcis in fundo, c'è sempre l'«oro del Pci», quel patrimonio che si aggira intorno al miliardo di euro fatto di 2.400 immobili e 410 opere d'arte. Gruzzolo messo in salvo dagli appetiti pidini grazie a Ugo Sposetti, che lo ripartì in 62 tra fondazioni e associazioni indipendenti.
Ma sul quale Renzi, per bocca del tesoriere Bonifazi, ha ricominciato ad avanzare pretese prima che vada a finanziare un partito di D'Alema o che - secondo una recente vulgata - il vecchio Napolitano lo faccia passare in gestione a Orlando, ultimo dei suoi scudieri. Proprio vero: seguendo le tracce dell'oro certe lotte si comprendono meglio. E così certe risalite, ardite.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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