Lo spettro di Ceausescu non lascia la Romania: tornano i postcomunisti

Il Paese afflitto dalla corruzione cede ancora al populismo di una sinistra impresentabile

Lo spettro di Ceausescu non lascia la Romania: tornano i postcomunisti

Ventisette anni dopo la sua fine ingloriosa e cruenta, l'erede mascherato del partito comunista che fu di Nicolae Ceausescu rischia di riconquistare il potere in Romania. Intendiamoci, non siamo alla vigilia di un revival della falce e martello in stile anni Cinquanta: il mondo è cambiato e la Romania è oggi membro dell'Unione Europea e della Nato, lontano mille miglia dal Paese straccione e asservito a Mosca dominato dal Conducator rosso che pretendeva di farsi chiamare «Genio dei Carpazi». E tuttavia il partito socialdemocratico romeno, che i risultati finali delle elezioni politiche tenute ieri e diffusi a partire da questa mattina dovrebbero vedere largamente in testa, è un parente non tanto lontano di quello comunista che fece il bello e (soprattutto) il cattivo tempo a Bucarest e dintorni per quarant'anni.

Gli elettori «socialisti» romeni sono in parte gli stessi e in parte i discendenti del gruppo sociale che sosteneva la dittatura: colletti blu delle province depresse, contadini, anziani legati a un sistema che garantiva molto poco ma lo garantiva a tutti chiedendo in cambio poco lavoro, fedeltà al capo e rassegnazione a subire un durissimo stato di polizia. Il Psd, nato da una scissione dal partito comunista avvenuta dopo la fine del regime, era dato largamente in testa negli exit poll di ieri sera, con il 45% delle dichiarazioni di voto. Ben più indietro (attorno al 25%) i nazional-liberali che hanno come uomo di punta l'attuale presidente della repubblica Klaus Iohannis, espressione della minoranza di lingua tedesca, l'Unione per la salvezza della Romania che punta tutto su un messaggio anti-corruzione e che ambisce al ruolo di ago della bilancia, e una pletora di partiti minori.

La corruzione sembra essere il vero problema in Romania. Il precedente governo a guida socialista era caduto ignominiosamente 14 mesi fa in seguito alla tragedia della discoteca Colectiv di Bucarest, nel cui rogo provocato dall'uso di fuochi d'artifico all'interno del locale autorizzato in cambio di mazzette erano morte 64 persone. Il premier Victor Ponta non aveva potuto evitare le dimissioni, trattenute per sei giorni, dopo che Bucarest era stata teatro di una colossale manifestazione di protesta. Lo stesso Ponta, peraltro, era stato accusato dalla procura anticorruzione di complicità in evasione fiscale, riciclaggio di denaro proveniente da attività precedenti e falso in atto pubblico.

Piombata nel caos istituzionale, la Romania ricorse al classico rimedio d'emergenza: un governo di tecnici, affidato all'ex commissario europeo all'Agricoltura Dacian Ciolos. Destino comune di questi «governi degli onesti» è quello di far rimpiangere disonesti e populisti e Bucarest non fa eccezione. Così Ponta ha sì ceduto la guida del suo partito a Liviu Dragnea, il suo ex numero due nel governo, ma si è ricandidato in un collegio sicuro e conta di ritornare in sella. Dragnea, intanto, fa il lavoro sporco: promette a destra e a manca esattamente le stesse cose che quattr'anni fa aveva già promesso e mai mantenuto, cioè aumenti di stipendi generalizzati e abbassamenti dell'età della pensione.

La cosa curiosa è che la diffusa pratica della corruzione e del nepotismo sembra far dimenticare ai romeni che il governo di Ciolos ha permesso nel 2016 al loro Paese di crescere a un ritmo senza precedenti: il 4,6% al terzo trimestre, il dato più alto di tutta l'Europa. I benefici, evidentemente, non devono aver riguardato le fasce più basse della popolazione, che pensa dunque di affidarsi ai professionisti dell'invidia sociale.

La probabile vittoria dei post-comunisti non dovrebbe essere

sufficiente a farli governare da soli. Per raggiungere la maggioranza nel Parlamento monocamerale di 357 membri dovranno dunque ricorrere al loro più riconosciuto talento: ottenere sostegno senza tanto guardare per il sottile.

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